JEROME K JEROME – TRE UOMINI IN BARCA Per non parlar del cane

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JEROME
K JEROME – TRE UOMINI IN BARCA
Per non parlar del cane
CRESCERE
EDIZIONI – 9788883372131 – 2012

JEROME K JEROME – TRE UOMINI IN BARCA

Per non parlar del cane

CRESCERE EDIZIONI – 9788883372131 – 2012

Questo divertentissimo libro mi è stato dato in diffusione culturale, il 23 dicembre 2013, da Valentina Paolacci.
A tratti gli episodi narrati son così spassosi da costringere ad interrompere momentaneamente la lettura. Valga su tutti quello dello zio Podger alle prese con il quadro da appendere…
Da segnalare un numero spropositato di refusi.
Ignoto il nome del traduttore.

AVVERTENZA DELL’AUTORE p.5

PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE p.7

CAPITOLO 1 p.9

Riuniti in una stanza tre amici, J, George ed Harris, fumano commentando il proprio stato di salute, apparentemente pessimo. Con loro c’è anche il cane di J, Montmorency. George ed Harris dichiarano di esser colti da continui attacchi di vertigini mentre J, dopo la lettura di un foglietto informativo, si sente affetto da problemi al fegato…

Eravamo in quattro, George, William Samuel Harris, io, e Montmorency. Seduti nella mia stanza fumavamo e commentavamo come fossimo mal ridotti – ridotti male, si capisce, dal punto di vista medico, questo intendo dire.
Ci sentivamo tutti e quattro tristanzuoli e ciò ci innervosiva.
Harris diceva che di tanto in tanto sentiva tremendi attacchi di vertigini da non sapere più quel che faceva; e allora anche George disse che aveva attacchi di vertigini e non sapeva più quel che faceva. In quanto a me, si trattava del fegato in disordine.
Sapevo benissimo che si trattava del fegato in disordine perché avevo letto proprio allora un foglietto propagandistico di certe pillole per il fegato nel quale erano elencati tutti i vari sintomi per cui uno può affermare che il proprio fegato è in disordine. E io, quei sintomi, li avevo tutti. (p.9)

J è in realtà ipocondriaco e facilmente influenzabile, tanto che anni addietro, recatosi in biblioteca per informarsi su una malattia che pensava di avere, ne uscì convinto di esser afflitto da tutte le malattie tranne il ginocchio della lavandaia. Precipitatosi dal medico, quello lo visitò prescrivendogli di condurre una vita più salutare e di non occuparsi di materie di cui non avesse conoscenza. Ma ecco che ora l’opuscolo letto sui disturbi del fegato lo convince di soffrirne. Ne soffrirebbe fin da giovane, ma allora la sua veniva scambiata per pigrizia e curata con degli scappellotti…

Quando ero entrato in quella sala di lettura ero un uomo sano e felice. Quando mi trascinai fuori di lì ero un decrepito relitto umano.
E mi recai dal mio medico. (p.11)
Nella presente contingenza, per tornare alla propaganda per le pillole per il fegato, non c’era possibilità di sbagliarsi: i sintomi io li avevo e il principale era “un’allergia generale” per qualsiasi specie di lavoro. […]
La medicina era molto lontana dal progresso di ora, e i miei confondevano la malattia con la pigrizia. […]
E, invece di pillole, erano sganassoni. Eppure, per quanto possa sembrar strano, quegli sganassoni riuscivano a guarirmi, almeno per il momento. […]
Per un’altra mezz’ora ci descrivemmo l’un l’altro le nostre malattie. (p.13)

Dopo il pranzo riprendono la discussione sullo stato di salute, giungendo alla conclusione di aver bisogno di riposo. Troppo lavoro…

Assolto questo compito, riempimmo di nuovo i bicchieri, accendemmo le pipe e riprendemmo la conferenza sullo stato della nostra salute. Cosa fosse quello che effettivamente avevamo nessuno di noi era in grado di poterlo dire con certezza ma l’opinione generale era che, fosse quello che fosse, tutto era effetto dell’eccesso di lavoro. (p.14)

Harris propone allora un viaggio in mare…

No, – disse Harris.- Se vogliamo un po’ di riposo e di evasione non c’è di meglio che un viaggio per mare.

Ma la proposta accettata all’unanimità è quella di George: risalire il Tamigi in barca…

George disse: – Il Tamigi. Risaliamo il Tamigi. […] (p.19)

Unico voto contrario è quello di Montmorency…

L’unico che non rimase colpito dall’idea fu Montmorency.
Montmorency non si è mai interessato di fiumi. […]
Tuttavia, eravamo tre contro uno, e la mozione fu approvata. (p.20)

CAPITOLO 2 p.21

I tre iniziano a programmare il viaggio decidendo di partire da Kingston. George, impegnato con il lavoro in banca fino al pomeriggio, li raggiungerà a Chertsey. Ma dovranno campeggiare o dormire in locande? Su proposta di Harris decidono di campeggiare con il solo bel tempo…

Il campeggio sotto la pioggia non è cosa divertente. (p.24)
Fatte perciò le debite considerazioni, decidemmo che avremmo dormito fuori nelle belle nottate, e quando fosse piovuto o quando avessimo voluto cambiare, ce ne saremmo andati all’albergo, o alla locanda o all’osteria, come fanno tutte le persone rispettabili.
Montmorency salutò con molta soddisfazione questo compromesso. (p.26)

Terminata la discussione sul pernottamento i quattro escono per andare a bere qualcosa. L’indomani decideranno invece cosa portarsi…

CAPITOLO 3 p.29

Ed eccoli l’indomani di nuovo in riunione. J, nel considerare l’atteggiamento di Harris, si lascia andare in un memorabile aneddoto sullo zio Podger, capace di dar vita ad un’indescrivibile confusione per attaccare (male) un semplice quadro…

La sera dopo tornammo a riunirci per discutere i piani e metterci d’accordo. Harris disse:
– Ora, la prima cosa da fare è di stabilire quel che ci dobbiamo portare. Tu, J., prendi un pezzo di carta e scrivi, e tu, George, prendi il listino del droghiere e qualcuno mi dia un pezzo di matita perché la nota la faccio io.
Questo è Harris… sempre pronto ad accollarsi il peso di tutto per poi metterlo sulle spalle degli altri.
Mi fa ricordare sempre del mio povero zio Podger. (p.29)
Verso mezzanotte il quadro era appeso… di traverso e pericolante; alcuni metri della parete sembravano raschiati con un rastrello e tutti noi, ad eccezione dello zio Podger, eravamo stanchi morti, in uno stato miserevole.
Ecco fatto, – diceva lui scendendo pesantemente dalla sedia sui calli della donna a ore e guardando con evidente orgoglio la strage compiuta. – C’è della gente che per una sciocchezza simile sarebbe stata capace di chiamare un operaio. (p.32)

Decidono allora di fare così:

No, tu prendi la carta, la matita e il listino, George prende nota e il lavoro lo faccio io.(p.32)
Ma una prima lista, troppo corposa, è scartata.. Più tardi quella definitiva è infine pronta…

CAPITOLO 4 p.38

Passano quindi alla selezione di cibo e suppellettili utili alla preparazione dei pasti, escludendo petrolio e formaggi a causa del loro puzzo. J ricorda allora divertito di aver portato, anni addietro, due forme di puzzolentissimo cacio da Liverpool a Londra per conto di un suo amico. Sul treno, a causa della puzza, rimase il solo nello scompartimento. Consegnate poi le forme alla moglie dell’amico, quella se ne andò in albergo per non doverne sopportare il terribile odore. Al ritorno a casa l’amico fu così costretto a seppellire su una spiaggia le due forme, non potendo ulteriormente sostenere le spese di mantenimento di moglie e figli in albergo…

L’indomani, venerdì, i tre si riuniscono per fare i bagagli. J sostiene di saperli fare da Dio e così gli altri accettano di buon grado facendo fare a lui tutta la fatica. A lui che, invece, in genere si limita a dire agli altri come fare le cose…

Dissi che i bagagli li avrei fatti io.
Confesso che sono un po’ fiero della mia abilità nel fare i bagagli. E’ una di quelle cose che sento di saper far meglio di chiunque altro nel mondo (a volte mi meraviglio con me stesso dell’enorme numero di cose che so fare meglio degli altri).
Comunicai a George e ad Harris questa realtà e dissi loro che era meglio lasciassero a me il lavoro dei bagagli. Essi accettarono il mio consiglio con una prontezza che direi impudente. George si sistemò sulla sedia a sdraio e accese la pipa; Harris appoggiò i piedi sul tavolo e si accese un sigaro.
Non corrispondeva certo alle mie intenzioni. Avevo pensato, naturalmente, di dirigere i lavori, facendo sgobbare George e Harris secondo le mie istruzioni e scostandoli ogni tanto con degli “Oh, tu!…” “Qua, lascia fare a me” “Ecco fatto, semplicissimo”: in realtà insegnando, per così dire. Ora, questa loro maniera di interpretare la cosa mi irritò. Non c’è nulla che mi irriti tanto come vedermi intorno della gente che se ne sta comodamente seduta mentre lavoro. […]
Io, invece, non sono affatto così. Io non riesco a starmene seduto e tranquillo se vedo un altro che sfacchina e lavora. Io sento subito il bisogno di alzarmi e mettermi a sopraintendere, girando per la stanza con le mani in tasca e dicendogli come deve fare. La mia congenita operosità è fatta così. Non c’è rimedio.
Ciò nonostante, non dissi ima parola e cominciai a metter la roba dentro. (pp.45-46)

Chiude tutto ma ha dimenticato gli stivali. Poi un atroce dubbio? Lo spazzolino? Disfa nuovamente tutto finché non lo trova. Alle 10.05 la valigia è definitivamente chiusa. Harris e George iniziano allora a preparare le ceste con il cibo e le vettovaglie generando un disastro dietro l’altro. A far casino ci si mette anche Montmorency. A mezzanotte e 50 possono finalmente andare a dormire. George dovrà svegliare gli altri alle 6 e 30…

CAPITOLO 5 p.50

L’indomani, alle 9, è la sig.ra Poppets a svegliare J che sveglia Harris. George se la dorme della grossa e i due sono costretti a svegliare colui che avrebbe dovuto svegliare gli altri…

Non so perché, ve lo assicuro, ma la vista d’un altro, che se la dorme a letto quando io sono alzato, mi manda fuori dei gangheri. Mi sembra scandaloso veder sprecare le ore preziose della vita d’un uomo – gli istanti senza prezzo che mai più torneranno – in un semplice sonno animalesco.
Ecco lì George che, con la sua disgustosa indolenza, buttava via l’inestimabile dono del tempo lasciando che la sua preziosa vita, della quale avrebbe dovuto un giorno render conto minuto per minuto, gli sfuggisse senza esser vissuta. Invece di rimanere lì buttato su di un letto, immerso in un oblio che ottenebra l’anima, avrebbe potuto star a rimpinzarsi di uova e lardo, stuzzicare il cane, o amoreggiare con la serva. (p.51)

A colazione George legge le previsioni meteo che non prevedono nulla di buono per i giorni a venire. J ricorda allora di aver buttato giornate intere per dar retta alle previsioni meteo lette sui giornali o ai barometri appesi alle pareti… Terminata la colazione J ed Harris portano fuori i numerosi bagagli in attesa del passaggio di una carrozza. In breve tutti i fattorini dei negozi dei dintorni si fermano ad osservarli. Poco dopo è una vera e propria folla quelli che si diverte a guardarli, fino a che, finalmente, una provvidenziale carrozza li porta fino a Waterloo Station. Là nessuno sa però quale sia il treno per Kingston. Alla fine i due corrompono un macchinista che li conduce a destinazione…

CAPITOLO 6 p.60

Il tempo è eccellente e J si cimenta in resoconti storici su Kingston. Poi ricorda lo studioso e sempre malato compagno di scuola Stivvings, detto Sanford e Merton…

Poco dopo J, al momento al timone, per via del suo fantasticare fa incagliare la barca sulla riva. Poi decidono di fare una sosta ormeggiando ad Hampton Court. Harris gli racconta di quando visitò il labirinto finendo alla guida di tutti gli smarriti. Sarà uno dei custodi anziani a condurli fuori…

CAPITOLO 7 p.72

Passando la chiusa di Mousley J si lascia andare su considerazioni su quel posto della città, dove uomini e donne sfoggiano abiti alla moda. Poi ricorda di una gita in barca con due donne vestite come due modelle e condizionate quindi da tale inadatto abbigliamento per la paura di sporcarsi…

Harris propone di andare a visitare il cimitero di Hampton Church. A lui piacciono molto i cimiteri. Ma J è restio, non gli piace affatto visitare tombe e si salva ricordando che alle 17 hanno appuntamento a Shepperton con George…

CAPITOLO 8 p.82

Si fermano sotto i salici di Kempton Park a far merenda. Un tizio tenta di estorcergli denaro inventandosi la presenza di un presunto divieto di campeggio. Odiosi, dice poi J, sono i cartelli divieto di transito che spuntano sempre più numerosi lungo i fiumi… Segue poi una digressione sulle apocalittiche interpretazioni canore di Harris e il ricordo di una pessima figura fatta a un ricevimento dove, per colpa di due burloni, una triste canzone tedesca interpretata dal prof Slossen Boschen, è accolta con risa che provocano l’indignazione del prof…

Giunti a Waybridge scorgono George con un… banjo da suonare in barca…

CAPITOLO 9 p.95

J si lascia andare a considerazioni sulle alzaie che, puntualmente e inspiegabilmente, dopo l’uso finiscono intrecciate facendo litigare l’equipaggio dando il là a spiacevoli episodi. Numerosi altri comici incidenti capitano per via del rimorchio…

Geroge li traina fino a Penton Hook. Da lì decidono di risalire fino a Runnymead impegnandosi in una epica sfacchinata controcorrente. Ma la chiusa non giunge mai in vista e il timore è che possano averla eliminata come capitato in passato a J con quella di Wallingford…

CAPITOLO 10 p.107

Passate le 7 e mezza, non vedendo traccia di chiusa, si accampano per la cena. Ma montare il tendone si rivela un’impresa. Poi, finalmente, riempiono lo stomaco convenendo sul fatto che quando esso è pieno ci si sente decisamente meglio…

Noi non siamo altro che i maggiori e più tristi schiavi del nostro corpo. Amici, amici, non correte dietro alla moralità ed alla rettitudine: sorvegliate sempre il vostro stomaco e alimentatelo con cura e con giudizio. Allora la virtù e la soddisfazione verranno a regnare nel vostro cuore senza nessuno sforzo da parte vostra; e sarete buoni cittadini, mariti amorosi, teneri padri e uomini nobili, pii.
Prima di cena Harris, George ed io eravamo tutti e tre di malumore, arcigni, petulanti; dopo cena rimanemmo seduti tranquilli, a sorriderci l’un l’altro, e sorridevamo anche al cane. Ci volevamo bene, volevamo bene a tutto l’universo. (p.112)

Fumando fantasticano sulla possibilità di andare a vivere su un’isola deserta…

Vanno a dormire ma J si sente a disagio sulla barca. Va a farsi una camminata, poi si addormenta…

CAPITOLO 11 p.118

Alle 6 dell’indomani J e George sono già in piedi e quest’ultimo inizia a raccontare di quando, pensionante presso la sig.ra G., si alzò alle tre di notte per colpa dell’orologio malfunzionante e di come riamase poi sveglio per tutta la notte… Svegliato Harris, smontano il tendone. In base ai programmi dovrebbero tuffarsi nel fiume per nuotare, ma il freddo li scoraggia. J però, salito su un tronco per raggiungere la riva, finisce per rovesciarsi. Harris decide di preparare per colazione le uova strapazzate, combinando però solamente disastri…

Nella padella erano state buttate sei uova e ora venne fuori, invece, un cucchiaino di roba bruciacchiata e di aspetto per niente appetitoso. (p.125)

Il bel tempo fa fantasticare J che immagina la firma della Magna Carta...

CAPITOLO 12 p.130

Passata l’isola di Magna Carta dove c’è la pietra su cui sembra sia avvenuta la firma, i tre raggiungono Ankerwyke House, dove pare si incontrassero Enrico VIII ed Anna Bolena. J riflette su quanto sia difficile convivere con due innamorati, dato che li si ritrova ovunque ci si sposti…

Passando per Datchet rammentano di quando, dopo le dieci di sera, tempo addietro cercarono invano un posto dove dormire…

Presso Monkey si fermano a far merenda instristendosi per la mancanza di mostarda. Poi, privi di apriscatole, armano un’epica, divertentissima e vana lotta contro una scatola di Ananas…

La battemmo fino a schiacciarla; poi la riducemmo quadra e così di seguito in tutte le sagome geometriche conosciute – ma non fummo capaci di farci un buco. Allora George si avventò su di essa e la ridusse ad una forma così strana, così soprannaturale, così paurosa nella sua ripugnanza che lui stesso si spaventò e gettò via il palo dell’albero. Poi ci sedemmo tutti e tre sul prato intorno alla latta e rimanemmo a fissarla.
Sulla parte superiore si era formato una specie di bozzo che aveva l’aspetto di una smorfia beffarda e che ci fece andar fuori dei gangheri, sicché Harris si scagliò sulla latta, la prese e la gettò lontano in mezzo al fiume e mentre essa affondava noi le gridammo dietro tutte le nostre maledizioni e tornammo subito alla barca per rimetterci a remare e fuggire da quel posto. Non ci fermammo più fino a Maidenhead. (p.140)

A Cookham si fermano per il tè. Poi J governa la barca che fila con il vento, sorprendentemente a favore. Ma ecco che urtano la barca di tre vecchi pescatori che rivolgono loro i peggiori insulti…

Non penetrammo nel regno del crepuscolo; andammo a sbattere in quel sandaletto, nel quale tre vecchi stavano pescando. […]
Harris ammainò la vela e così potemmo vedere quello che era successo. Avevamo scaraventato dalle sedie quei tre signori che ora formavano un ammasso nel fondo dell’imbarcazione e a fatica e penosamente si districavano, e si staccavano i pesci dalle vesti, e nel far tutto ciò mandavano le loro maledizioni, ma non con la solita maniera usuale di maledire, sebbene con espressioni diligentemente pensate, maledizioni comprensive che includevano tutta la nostra vita e arrivavano fino al lontano futuro; che associavano i nostri parenti, e si estendevano a tutti e a tutto ciò che avesse relazioni con noi – insomma accidenti buoni, sostanziosi. (pp.142-143)

Di lì in avanti è George a condurre la barca fino a Marlowe, dove scendono per pernottare alla locanda Corona…

CAPITOLO 13 p.144

Il viaggio prosegue attraverso Marlow, l’abbazia di Bisham Hurley e quella di Madmenham…

J si dilunga su considerazioni sui Fox Terrier, cani indemoniati capaci di crear scompiglio ovunque. Montmorency non fa eccezione, anche se quella mattina perde lo scontro con un enorme gatto nero di strada, capace di farlo indietreggiare con il solo sguardo…

A Marlow si fermano a fare acquisti creando un corteo di fattorini fino alla barca…

Sul fiume si divertono a infastidire le lance a vapore di passaggio, facendo finta di non sentirle e non lasciando loro il passo…

Terminata l’acqua di scorta, sono costretti ad usare quella di fiume. Durante la cena Harris, sedutosi sulle sponde di uno sprofondo celato dalla vegetazione, scompare in esso assieme al polpettone che teneva in mano…

CAPITOLO 14 p.159

Il viaggio prosegue attraverso Wargrave, Shiplake, Sonning. Per cena, su proposta di George, preparano uno stufato irlandese a base di carne e vegetali. Dato che Harris e J si stufano ben presto di pelare patate, nella pentola finiscono patate non sbucciate, carote, carne e altri avanzi. Montmorency tenta invano di contribuire… con un topo morto!

Ora non mi ricordo tutti gli altri ingredienti ma vi posso assicurare che nulla fu sciupato; e verso la fine Montmorency, che era stato attentissimo a tutto il procedimento, si allontanò con un’aria molto seria e pensierosa e poi riapparve, qualche minuto dopo, con un topo di fogna morto in bocca che, evidentemente, voleva offrire come suo contributo al pranzo; se l’abbia fatto con intento sarcastico oppure obbedendo a un generico desiderio di collaborare, non saprei dirlo.

Il risultato è per loro ottimo. Più tardi il cane litiga con il bricco dell’acqua calda finendo per scottarsi…

George prova a suonare il banjo con pessimi risultati tra le proteste di Harris e Montmorency. Non imparerà mai a suonarlo per le proteste e i boicottaggi altrui. J ricorda che in effetti un suo amico dovette superare ogni sorta di ostacoli per imparare a suonare la zampogna…

Dopo cena J e George vanno ad Hanley, mentre Harris resta a bere sulla barca. A mezzanotte, di ritorno sotto la pioggia, i due chiamano Harris affinché li vada a prendere, ma nessuno risponde. J scorge una luce, grida e… Montmorency risponde! Poi arriva anche l’assonnato e affranto Harris che racconta di aver dovuto lottare per ore con dei terribili cigni, il cui numero varia di volta in volta nel corso dell’esposizione. L’indomani negherà tutto ma per il momento di certo c’è solamente la scomparsa del whisky. Quella notte li sveglierà poi in continuazione per cercare i suoi abiti…

CAPITOLO 15 p.173

L’indomani, dopo colazione, ripartono bisticciando su chi sia colui che stia lavorando di più. J è convinto sia proprio lui e gli altri pensano lo stesso di sé. Divertentissimo il loro scambio di battute…

Io ho sempre l’impressione di star facendo più lavoro di quanto debba. Credete, non è perché abbia antipatia per il lavoro; al contrario, il lavoro mi piace, mi affascina. Sono capace di starlo a guardare per ore e godo tanto a tenermelo vicino che l’idea di dovermene liberare quasi mi schianta il cuore.
Per me il lavoro non è mai troppo; ho quasi la passione di accumulare lavoro; il mio studio ne è ora così pieno che non c’è neanche più un centimetro di spazio per metterci altro lavoro.
Presto dovrò buttar giù una parete.
E, inoltre, sono attaccatissimo al mio lavoro. Una parte del lavoro che ho adesso sta con me da anni e anni e, credete, non c’è neanche l’impronta di un dito. Del mio lavoro sono orgoglioso, ogni tanto lo rimuovo e lo spolvero. Non esiste un uomo al mondo che mantenga il suo lavoro in miglior stato di conservazione.
Ma, nonostante la mia avidità di lavoro, sono onesto. Non ne chiedo più della parte che mi spetta.
Invece, me ne arriva senza che lo chieda – per lo meno così mi sembra – e ciò mi irrita.
George afferma che, secondo lui, io non mi debbo inquietare per questo. Dice che la mia convinzione che mi si dia sempre più lavoro di quanto me ne spetti, dipende dalla mia coscienza eccessivamente scrupolosa e che, in fondo poi, non ne ho neanche la metà di quanto ne dovrei avere. Ma sono convinto che dice così solo per consolarmi.
Mi sono accorto che quando si è in una barca ciascun compo-i nente dell’equipaggio ha l’idea fìssa di esser lui a fare tutto. La convinzione di Harris era che solo lui lavorava e che io e George lo stavamo sfruttando. George, da parte sua, trovava ridicolo che Harris pensasse di aver fatto qualcosa d’altro all’infuori di sbafare e dormire e aveva la ferrea convinzione che era lui – George – ad aver fatto tutto il lavoro degno d’esser chiamato tale. Affermava di non essersi mai trovato in giro con una coppia di oziosi scansafatiche come me e Harris. Harris ci si divertiva un mondo.
– Magnifico, ecco il nostro vecchio George che parla di lavoro! – diceva ridendo; – dopo mezz’ora morirebbe! Hai mai visto George lavorare? – aggiunse guardando me.
Convenni con Harris che non lo avevo mai visto, e ne avevo avuto la conferma da quando era cominciato questo viaggio.
– Sicuro! ma quello che non capisco è come mai TU, PROPRIO TU possa giudicare, – ribatté George a Harris; – visto che Dio mi fulmini se non sei stato sempre addormentato. Hai mai visto Harris completamente sveglio, eccetto all’ora di mangiare? – chiese George rivolgendosi a me.
Per onor del vero dovetti dare ragione a George. Harris, fin dal principio e per quanto riguardava i lavori da fare, aveva reso ben poco.
– Sta bene, sia pure, però più di questo vecchio J. l’ho fatto senz’altro, – affermò Harris.
– Sfido io, e com’era possibile far meno di lui? – rispose George.
– Io credo che J. pensi di essere il passeggero, – continuò Harris.
E fu quella la loro gratitudine per averli portati fin lì, loro e la loro vecchia barcaccia sconquassata, da Kingston, e per aver diretto e organizzato ogni cosa, per essermi preoccupato di loro e per avere sfacchinato per loro. Ma il mondo è fatto così.(pp.174-175)

Alla fine trovano comunque un accordo…

Accomodammo la difficoltà contingente decidendo che Harris e George avrebbero vogato fin oltre Reading e che di lì in avanti | io avrei dato il rimorchio. Ora, il rimorchiare una barca pesante f contro corrente non mi attrae più troppo; ma ci fu un tempo, molti anni fa, che strepitavo perché mi assegnassero quel lavoro; ora preferisco lasciare il piacere ai giovincelli. (p.175)

J riflette poi sui vecchi barcaioli che, mentre gli altri vogano contro corrente, incitano raccontando storie sulle prodezze passate. Ma i giovani d’oggi, come capitato a loro, non credono più a quanto gli si racconta. Ricorda poi i suoi primi passi nel canottaggio e quelli, disastrosi, di George. La cosa più difficile, in effetti, è di vogare a tempo, così come l’utilizzo della vela (numerosi i comici aneddoti sull’argomento)…

CAPITOLO 16 p.189

Verso le 11 raggiungono Reading. Alcuni amici di J li trainano poi con la loro lancia a vapore fino a Streatley. Divertenti leconsiderazioni di J sulle barche a remi che non si spostano: ma è proprio quanto da loro fin lì fatto con divertimento!…

Alla chiusa di Reading ci incontrammo con una lancia a vapore appartenente ad alcuni miei amici ed essi ci rimorchiarono fino ad un miglio da Streatley. Esser rimorchiati da una lancia a vapore è una vera delizia; io lo preferisco all’andare a vapore. Però avremmo potuto godercela ancor di più se non fosse stato per una quantità di vilissime barche piccole che si mettevan continuamente sulla strada della nostra lancia e, dovendo evitare di investirle, eravamo costretti a fermare e a rallentare ogni minuto. La condotta di queste barche a remi che si mettono sempre fra i piedi delle lance a vapore sul fiume è veramente fastidiosa, occorrerebbe proprio fare qualcosa per porre fine a una tale indecenza.
E poi, il bello è che sono di una sfacciataggine incredibile.
Avete un bel fischiare fino a far quasi scoppiare le caldaie: non si scomodano per farvi strada. Se potessi fare a modo mio ne affonderei un paio ogni tanto, così imparerebbero. (p.190)

Nei pressi di Goring si imbattono nel cadavere di una donna annegatasi nel fiume, poi vanno a mangiare a Streatley…

CAPITOLO 17 p.194

Dopo il vano tentativo di lavarsi gli abiti da soli, i tre sono costretti a farsi fare il bucato da una lavandaia che gli chiede tripla tariffa, tanto son sudici…

Prima avevamo tentato di lavarceli da noi, nel fiume, sotto la direzione di George. Ma era stato un disastro, anzi, a dire la verità, peggio di un disastro perché con i panni lavati da noi avevamo un aspetto peggiore di prima. Prima che li lavassimo essi erano sporchi, sporchissimi, è vero, ma si potevano indossare.
Dopo che li avevamo lavati… Be’! il fiume tra Reading ed Hen-ley era diventato molto più pulito, dopo che avemmo lavati i nostri panni, di quanto non lo fosse stato prima, poiché tutta la sporcizia che conteneva tra Reading ed Henley noi la raccogliemmo nel lavare e la trasferimmo nei nostri panni.
La lavandaia di Streatley disse che per quel bucato si sentiva in dovere verso se stessa di farci pagare il triplo della tariffa. (p.194)

J si lascia poi andare a considerazioni sulla pesca. Lui rinunciò a diventare pescatore per assenza di immaginazione, necessaria in quell’attività…

Molta gente crede che tutto quello che occorre per fare un buon pescatore sia la capacità di dire facilmente le bugie senza arrossire, ma questo è un errore. La bugia semplice è sfrontata e inutile; la più vile matricola sarebbe capace di farlo. Il pescatore speri-?; mentato lo si riconosce, invece, nei dettagli circostanziali, nei toc chi di abbellimento e di veridicità, nell’espressione di persoi scrupolosa, quasi pedante e veritiera.
Chiunque può dire: – Sentite, ieri sera presi quindici dozzine d’ pesci persico. – Oppure: – Lunedì scorso tirai a terra un ghiozzo di circa dieci chili che misurava novanta centimetri dalla testa alla coda.
Per questo genere di discorsi non occorre arte, non occorre ingegno. Tutto al più essi dimostrano temerarietà.
No, il pescatore finito si vergognerebbe di dire una bugia di questo genere. Il suo metodo è scientifico. (p.196)
Se qualche volta, trovandovi sul fiume, avrete una serata senza occupazioni, vi consiglierei di entrare in una delle locande dei pae-setti lungo la riva e sedervi nella sala di mescita. E^quasi certo che vi troverete qualcuno di quei vecchi pescatori consumati intenti a sorbire il loro ponce, pronti a raccontarvi tante storie di pesca in mezz’ora da darvi l’indigestione per un mese. (p.198)

La sera J e George entrano in una locanda di Wallington dove sperimentano le chiacchiere da pescatore. Chiunque dice infatti loro di aver pescato l’enorme trota appesa alla parete. Per vederla meglio George sale sulla sedia ma, scivolando, la fa cadere. Era una trota di gesso…

CAPITOLO 18 p.203

J tesse le lodi delle chiuse per poi ricordare un incidente capitato in passato a lui e a George ad Hampton Court. Il mattino seguente da Wallingford proseguono per Oxford che vogliono raggiungere entro il pomeriggio…

CAPITOLO 19 p.211

Dopo due piacevoli giornate ad Oxford è tempo per loro di iniziare a risalire il fiume… J si dilunga sulla mediocrità delle barche da affitto sul Tamigi dopo Marlow ricordando uno spiacevole episodio capitato a lui e a dei suoi amici…

Il viaggio di ritorno inizia con la pioggia. Il maltempo li mette di malumore togliendogli perfino l’appetito a cena. Anche l’indomani la pioggia resta incessante e così la sera gettano al vento i buoni propositi fermandosi a Pangbourne dove prendono il treno per Londra. Cenano al ristorante, poi vanno al teatro Alhambra e tornano infine al ristorante per mangiare ancora. Sono tutti ben felici di aver lasciato il Tamigi…

Avevamo mentito al barcaiolo di Pangbourne perché non avevamo avuto la faccia di dirgli che stavamo scappando per la pioggia. (p.220)
E allora Harris, che sedeva presso la finestra, scostò le cortine e guardò. La strada bagnata e scura luccicava, la scarsa luce delle lampade vacillava e la pioggia cadeva nelle pozzanghere e scendeva dalle grondaie nei rivoli lungo il marciapiede. Pochi passanti inzuppati transitavano alla svelta, curvi sotto gli ombrelli gocciolanti e le donne si tenevano su le sottane.
– Be’! – disse Harris allungando la mano verso il suo bicchiere, – è stato un bel viaggio e il mio cuore ne è grato al vecchio padre Tamigi, ma credo che abbiamo fatto bene a salutarlo al momento giusto. Alla salute di tre uomini fuori della barca!
E Montmorency, che ritto sulle gambe posteriori, davanti alla finestra, sbirciava fuori nella notte, fece una breve abbaiata unendosi decisamente al brindisi. (p.221)

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