INDRO MONTANELLI – ISTANTANEE
BUR – Collana SAGGI – I ed Ottobre 2006
AVVERTENZA p.5
GIORGIO ALMIRANTE (1914-1988) p.7
1983
Personalmente, Almirante è uno degli uomini politici italiani più corretti, ed è riuscito ad imporre il rispetto dei metodi legalitari a un partito che non ne ha di certo la vocazione. E riuscito anche, sia pure con molta fatica, a distinguerne le responsabilità da quelle del terrorismo nero e dello squadrismo alla Rauti. Delle due anime che sempre divisero anche il fascismo storico – quella statutaria e in doppio petto, e quel la populista e descamisada -, Almirante incarna la prima. (p.7)
1987
Ad Almirante si può contestare tutto, meno il coraggio, la personale onestà, l’efficacia della sua oratoria parlamentare, e la dedizione alla Causa, giusta o sbagliata che sia. Ereditò un partito pericolosamente inquinato e percorso da tentazioni estremiste, e lo ricondusse nel solco della più rigorosa legalità, preservandolo da ogni coinvolgimento nel terrorismo nero. (p.7)
1988
Ed è vero, anche se se ne sono viste di ben altre. Ma bisogna riconoscere che, dei reduci di Salò, Almirante è stato quello che meglio, con più facilità e disinvoltura, si adattò alla li bertà e seppe adattarvi un partito nutrito di rimpianti totali tari e di tentazioni eversive. Questo è un servigio di cui tutta la democrazia italiana dovrebbe dargli atto. […]
Almirante non era mai stato un estremista, nemmeno a Salò, dov’era quasi obbligatorio esserlo. (p.8)
GIULIANO AMATO p.9
GIORGIO AMENDOLA p.11
La carriera di Amendola sa un po’ di miracolo all’italiana. Come perseguitato, vive di rendita sul martirio del padre, ucciso dai fascisti; ma bisogna onestamente dargli atto che non lo sbandiera mai. È, fra i dirigenti del partito, forse il più digiuno di dottrina: non ha mai letto nessuno dei sacri testi e si è regolarmente infischiato dei bisticci ideologici cui dà luogo la loro interpretazione. Non conosce il russo. Non è mai andato a Mosca, anzi ha sempre addirittura evitato di varcare la «cortina di ferro», perché in privato confessa che tutto ciò che c’è di là l’opprime e gli mette malinconia. (p.11)
… Amendola non vuole né un partito stalinista né un par tito antistalinista. Vuole un bel comuniSmo fatto in casa, pronto a giuocare all’italiana, cioè con qualche carta infilata nel polsino, e disposto ad attribuirsi come patrono non più Marx o Lenin, ma san Gennaro. (p.12)
Non vorremmo essere irriverenti nei confronti dello scomparso, uomo certamente di alte qualità politiche e morali. Ma in un partito in cui di leader ce n’è sempre uno solo, Amendola non lo fu mai. (p.12)
BENIAMINO (NINO) ANDREATTA p.13
GIULIO ANDREOTTI p.14
…fra tutti i pupilli dello statista trentino [De Gasperi], è uno dei più fedeli alla sua memoria, e l’ha dimostrato anche nel l’eccellente saggio biografico che gli ha dedicato. La sua non è l’orazione funebre di Antonio sulla tomba di Cesare. Si sente che parla d’un Maestro, anzi del Maestro. Ma al cada vere non rimase abbracciato e non ne seguì la sorte, come una vedova indiana, sulla pira.
L’uomo è distaccato, […] guardingo, a sangue ghiaccio. Non c’è pericolo che impenni sull’ostacolo.
È una specialità di Andreotti, quella di non lasciar mai impronte digitali. (p.14)
1972
Una volta scrissi di lui che i primi scatti di grado se li guada gnò accompagnando ogni mattina De Gasperi in chiesa, do ve sedevano sullo stesso banco, ma non per fare la stessa co sa: mentre De Gasperi parlava con Dio, Andreotti parlava col prete. Mi hanno detto che, leggendo queste malignette parole, Andreotti commentò: «Sì, però a me il prete rispondeva». Una battuta da prelato del Rinascimento amico di Pasquino.
* * *
Nei suoi confronti, mi sento molto combattuto. Più che un uomo di governo italiano, l’ho sempre considerato un Mini stro pontificio scampato alla breccia di Porta Pia e sbarcato nello Stato laico con un invisibile ma folto seguito di Monsi gnori, parroci e sagrestani addetti a chiatta elettorale.
So soltanto che Andreotti mi appare come il più prete di tutti i democristiani, ma il meno democristiano di tutti i pre ti: il che mi ispira una certa fiducia. (p.15)
[…] Curiosa sorte di un uomo che, avendo camminato tutta la vita in punta di piedi per non farsi sentire, ha lasciato il rimbombo dei suoi passi anche là dove probabilmente non è mai passato.
[…] Se è un mariuolo, lo è di una dimensione che ha pochi riscontri nella Storia. Se non lo è, è un extraterrestre di una inossidabilità da fare invidia a Mazinga. (p.17)
ALDO ANIASI p.24
ENRICO BERLINGUER p.26
1975
Non sappiamo quanti premi l’on. Berlinguer abbia ricevuto dacché è segretario del Pei. Immaginiamo che siano già mol ti e destinati a moltiplicarsi in proporzione geometrica all’aumento dei voti che il suo partito raccoglie. Siamo anche sicuri ch’egli li merita tutti. Ma siamo altrettanto convinti che, per quanti gliene assegnino, il più pertinente rimarrà sempre quello attribuitogli ieri dagli albesi: il «tartufo gigan te». Pare che l’esemplare inviatogli batta tutti i primati come fragranza e dimensioni (pesa 350 grammi). E non c’è da te mere che il destinatario non sappia apprezzarlo al suo giu sto. Di tartufi, è certamente un intenditore: il suo partito ne costituisce la più ricca collezione. (p.26)
-
* *
Ho parlato con lui una sola volta. Ma in quel colloquio, che durò abbastanza a lungo, trovai conferma dell’idea che, guardandolo di lontano, mi ero fatta di lui: un uomo intro verso e malinconico, d’immacolata onestà e sempre alle pre se con una coscienza esigente, solitario, di abitudini sparta ne, più turbato che allettato dalla prospettiva del potere, e in perfetta buona fede. (pp.27-28)
Fra i veterani della nomenklatura italiana non era amato: lo consideravano, per la sua mancanza di medagliere, una spe cie di abusivo che aveva saputo sfruttare (e non era vero) le simpatie del Grande Capo. Quanto alla cosiddetta «base», solo da morto è riuscito a scaldarla. Da vivo, non aveva nem meno mai tentato. Uomo di sinedrio, più che agitatore di fol le, non aveva il carisma né l’oratoria del tribuno, e quando saliva su un podio di piazza, sul volto malinconico e nel me sto sguardo gli si leggeva il disagio. Non giuocò mai al perso naggio, mai cercò la passerella e il flash che anzi visibilmente
lo imbarazzavano: a Costanzo e alla Carrà non saltò mai in testa d’invitarlo a uno dei loro intrattenimenti.
SILVIO BERLUSCONI p.31
1981
Berlusconi non è né un politico né un gerarca civile o milita re, e non svolge nessuna pubblica funzione incompatibile con l’appartenenza alla massoneria. È un privato imprendi tore e cittadino che quando fa una balordaggine (e certa mente l’iscrizione alla P2 lo è), la fa a proprio rischio e peri colo. […] il suo coinvolgimento nella P2 non ci ha impedito di dire, di Gelli e della sua banda, tutto il male che ne pen siamo. E ad onore del nostro socio posso aggiungere ch’egli non ci ha rivolto nemmeno una sommessa supplica di addol cimento, forse anche perché sapeva che non l’avremmo esau dita.
1990
quello del suo avversario e rivale De Benedetti è di cantare vittoria prima di averla ottenuta, il vizietto di Berlusconi è di non accusare sconfitta dopo averla subita. La spavalderia gli è stata cattiva consigliera fino a fargli la fama di un giocatore che, abituato a vincere, non ha ancora imparato l’arte di perdere, pur così necessaria per tornare a vincere.
[…]
Berlusconi è uno di quegli uomini che accettano volentieri i consigli solo quando confortano le decisioni che hanno già preso: gettare acqua sul fuoco dei suoi entusiasmi è il peg- gior dispetto che gli si possa fare, e lui sapeva che gliel’avrei fatto. (p.33)
Berlusconi è un semplificatore. In questa sua straordinaria facoltà di ridurre anche i problemi più complessi in termini semplici e chiari sta il segreto del suo grande successo in campo imprenditoriale. Trasferita in campo politico, questa qualità diventa, almeno in Italia, un difetto capitale, che probabilmente gli costerà caro. (p.35)
GIUNIO VALERIO BORGHESE p.36
1971
[…]Voglio dirvi soltanto che l’impressione che fin d’allora ne riportai è che Giunio Valerio Borghese non esiste, esiste soltanto un matto che si crede Giunio Valerio Borghese, e un po’ per il suo blasone di principe, un po’ per le medaglie di cui il suo petto è costellato, un po’ per quel suo nome Giunio Valerio doppiamente e scultoreamente romano, si considera l’«uomo della provvidenza» destinato a restaurare le aquile imperiali sui «colli fatali» dell’Urbe.(p.36)
UMBERTO BOSSI (p.37)
1992
… ho l’impressione che Bossi, quando sale sul podio e afferra il microfono davanti ai suoi descamisados, non sappia nem meno lui dove andrà a parare e si lasci portare dal vento del la piazza. Non è un’accusa che gli muoviamo; anzi è un’atte nuante che gli offriamo. Perché se ammettessimo che Bossi non soltanto dice ciò che pensa, ma pensa ciò che dice, do vremmo concluderne che ci troviamo di fronte ad un caso più clinico che politico. […]
A combattere Bossi ci vorrebbe poco: basta lasciarlo parlare. (p.38)
MARIO CAPANNA (p.39)
1979
Lo spettacolo di questi ra gazzi-prodigio abortiti, di questi barricadieri con pancia e cel lulite, che credevano di camminare con la storia, e invece camminavano solo con la moda, non ha nulla di edificante.
***
… i tipi come lui sono interlocutori temibili solo quando hanno dalla loro l’ululato della folla. (p.39)
1982
Li conosco, signor Capanna, i rivoluzionari della sua risma. So che, se potessero, ci manderebbero tutti sulla forca. Ma nemmeno in questo caso smetterebbero di farmi ridere.
1988
Capanna è sempre in caccia di pretesti per fare chiasso e apparire sulle prime pagine dei giornali. (p.40)
GUIDO CARLI p.42
EMILIO COLOMBO p.44
FAUSTO COPPI p.46
Era rimasto il ragazzo timido e malinconico di sempre, beneducato e taciturno. Non era un personaggio pittoresco e estroverso. Si è portato in silenzio le sue croci e le sue amarezze, senza mai – ch’io sappia – addebitare ad altri le proprie disavventure. (p.47)
FRANCESCO COSSIGA p.48
BENEDETTO (BETTINO) CRAXI p.54
Non so se Craxi abbia commesso, sul piano tattico, degli erro ri, come alcuni gli rimproverano. Secondo me, il vero errore lo ha commesso iscrivendosi a quel partito [il Psi] e illudendosi di poterne fare qualcosa di coerente, efficiente e modernamente europeo. Lo dico con tristezza perché una liberaldemocrazia coi socialisti vive male, ma senza i socialisti non vive affatto. (p.54)
1983
Craxi avrà i suoi bravi difetti, anzi li ha di sicuro. Ma il meri to di aver condotto il Psi su posizioni democratiche, euro peistiche e atlantiche, nessuno glielo può negare. (p.55)
Il personaggio è arrogante, un po’ guappesco, e sembra ave re del potere un concetto alquanto padronale. Credo che ca pisca poco di economia (se ne capisse, del resto, non farebbe
il socialista) e che non sappia nulla della «macchina» dello Stato. Fra gli uomini del suo seguito, ce ne sono ben pochi che ispirino fiducia (e che probabilmente ne ispirino anche a lui).
-
* *
Non abbiamo con Craxi nessuna familiarità: avremo parlato con lui, sì e no, tre volte. Ci ha dato una incoraggiante im pressione di energia, risolutezza, rapidità di riflessi. Ma da certe sue reazioni, ci è parso di capire ch’egli ha anche una spiccata – e funesta – propensione a considerare nemici tutti coloro che non si rassegnano a fargli da servitori. (p.56)
1991
Craxi è certamente, dentro il partito, più subito che amato. Non per motivi ideologici che, da quando sono usciti di sce na gli ex azionisti Lombardi e De Martino, non contano più nulla. Lo è perché quello è un partito di nemici che si chia mano «compagni» solo per dare più sapore al loro cannibali smo. Ma più ancora per ragioni di carattere. Cresciuto nel l’apparato come pupillo di Nenni, Craxi ne rappresenta, sul piano umano, l’antitesi. Nenni era un padre, e lo rimase a vi ta; Craxi è un padrone che, se cade, lo sbranano. Intorno a sé non ha né amici né alleati; ha solo servitori o, nel migliore dei casi, tributari. Non tollera contestazioni, e lo dimostra anche la sua efficacissima oratoria: le lunghe pause in cui la sincopa sono quelle dell’uomo sicuro che nessuno ne appro fitterà per muovergli obbiezioni. Ed anche il suo modo di parlare sempre volgendosi di trequarti ora a destra, ora a si nistra, non è di riguardo per chi gli sta di lato, ma di disprez zo per chi gli sta di fronte. (pp.58-59)
… Craxi appartiene a quella categoria di personaggi che sanno cavalcare gli avvenimenti finché sono loro a provocar
-
e a metterli in moto. Quando devono subirli e starne al ri morchio, sbarellano da tutte le parti, e alla fine devono cede re il posto agli specialisti di questi esercizi, che hanno in An dreotti il super-campione. Come galleggiante, lui sì che se ne intende.
Forse fra poco sentiremo dire di lui [Craxi] quello che di Mussolini, dopo piazzale Loreto, i romani pensavano e scri vevano sui muri, con la loro consueta grazia e levità: «Aridà- tece er puzzone!». Ma non glielo auguriamo: i puzzoni che si rimpiangono sono solo quelli morti. (pp.59-60)
ENRICO CUCCIA p.62
ALCIDE DE GASPERO p.63
De Gasperi, che agli occhi di molti italiani passava per «l’uo mo dei preti», è stato in realtà l’unico presidente del Consi glio di questo dopoguerra che abbia difeso lo Stato dalle in terferenze della Chiesa, e lo dimostra la sua risposta a quello sgarbo: «Come cristiano accetto l’umiliazione. Come Capo del Governo italiano, la dignità e l’autorità che rappresento m’impone di esprimere lo stupore per un rifiuto così ecce zionale, e di chiedere un chiarimento». Questo fervente cat tolico, quando era in giuoco lo Stato, non piegava la testa nemmeno davanti al Papa.
-
* *
De Gasperi era davvero un uomo solo, anche nell’ambito del suo partito. Si è detto che questa solitudine gli derivava dal fatto di essere trentino, e quindi di essere nato austriaco e di aver fatto il deputato a Vienna. E anche questo avrà contri buito alla sua singolarità. Ma essa attingeva a un motivo più profondo: al fatto che De Gasperi era un democristiano che credeva in Dio. E, credendo in Dio, non aveva bisogno di fa re il clericale bigotto. (p.64)
1968
Gl’italiani che, a cominciare dai comunisti, lo qualificava no «austriaco», forse non si sono mai resi conto del torto che facevano a se stessi considerando straniero un uomo che por tava nella milizia politica un costume così sobrio e una così alta coscienza morale. Ma purtroppo erano abbastanza nel vero. Non nei sentimenti, ma nel carattere, De Gasperi non era italiano. Non lo era nemmeno come cattolico perché cre deva più in Dio che nei preti, e questo fu il suo guaio. (pp.65-66)
1990
De Gasperi portò nella politica una misura morale rigorosa nel senso che non esercitò mai il potere per il potere, che non fece mai del nepotismo o del clientelismo, che morì povero com’era vissuto. (p.66)
[…] è il capo democristiano che intrallazzò di meno; ma un poco dovette intrallazzare anche lui per di fendersi dagli intrallazzi degli altri. Certamente cercò di dire sempre la verità; ma a qualche piccola bugia dovette ricorre re anche lui. Certamente egli vide sempre con chiarezza ciò che bisognava fare; ma qualche volta rinunziò a farlo per non rischiare la sua posizione di comando: se lo avesse fatto, sa rebbe diventato un eroe, ma sarebbe fallito come capo poli tico.
Egli insomma interpretò al meglio la famosa preghiera dei protestanti: «Dio, dammi la forza di cambiare le cose che si possono cambiare, la pazienza di accettare quelle che non si possono cambiare, e l’intelligenza di distinguere le une dalle altre». Ma i protestanti non hanno i santi. (p.67)
FRANCESCO DE MARTINO p.68
CIRIACO DE MITA p.70
1973
Non è, sul piano umano, personaggio da sottovalutare. Non puzza di sacrestia. Ha stoffa, coraggio, temperamento, grin ta. E se lo invitate a cena, ci viene vestito non in frac, ma nei suoi veri e abituali panni: di cannibale. È un riconoscimento, non un’accusa. Cannibali, i politici in generale e i democri stiani in particolare, lo sono tutti. De Mita è fra i pochissimi che lo portano scritto sul biglietto da visita e che non faccia no eccezione alla loro dieta neanche il venerdì.
1982
… la sua immagine è quella di un concentrato di quanto nella De c’è di peggio: l’integralismo, il populismo, il clientelismo. All’accordo coi comunisti, che ora rinnega, o finge di rinne gare, De Mita è portato non da un progetto strategico, secon do noi perverso ma conseguente, alla Moro, ma dalla voca zione al papocchio. De Mita lo concepisce come un incontro di «cose nostre» da regolarsi fra boss, alla Cutolo insomma. (p.71)
1989
Il suo campo di manovra è sempre stato il partito, dove ha fatto tutta la sua carriera, e dove ha dato il meglio di sé, cioè il peggio: la capacità d’intrigo, di doppio gioco, di simulazione, di capoclan e di protettore di consorterie: arti nelle quali, è maestro e con le quali fino all’ultimo ha tentato di salvare la segreteria (mi dicono che ancora alla vigilia del congresso, era convinto di conservarla). (p.75)
ENRICO DE NICOLA p.77
GIUSEPPE DI VITTORIO (p.80)
CARLO DONAT CATTIN p.81
GIUSEPPE DOSSETTI p.85
FRANCO EVANGELISTI p.86
Franco di nome e di fatto, Evangelisti è un personaggio da suburra, greve e volgare: puzza di bettola e di coda alla vaccinara. Ma nel suo bullismo ha una sua rugantinesca ge nuinità. E soprattutto non è un tartufo. Non moraleggia. Non traveste di compunto virtuismo i propri gesti e parole. Se ruba (signor giudice, attenzione: ho detto se), lo fa a viso scoperto e senza cancellare le impronte digitali. Se bara al giuoco non dice che è Dio a infilargli la carta nel polsino. Se va in chiesa a pregare (l’ipotesi è audace, ma trattandosi di un democristiano va azzardata), siamo sicuri che si rivolge al Signore da padrino a padrino ricordandogli che «qui, figli di mignotta siamo tutti», compreso Lui.
C’è una sola persona di fronte alla quale questo protervo «er più» si riconosce «er meno» e s’inchina: Andreotti. (p.87)
AMINTORE FANFANI p.89
1958
… l’antipatia che suscita Fanfani è così piena, totale e plebi scitaria che finisce quasi per ispirarmi nei suoi riguardi un senso di tenerezza. L’uomo […] è migliore di come sembra. In quell’ambiguo partito di cannibali che non si sa per quale ragione si ostinino a chiamarsi cristiani, solo Andreotti, co me intelligenza, può contendergli il primato. È senza dubbio personalmente un galantuomo. Lavora come una bestia, e ha un sacco di buone intenzioni. Eppure la Natura si è divertita a caricargli addosso una tale dose di antipatia da nascondere completamente tutte queste buone qualità. (p.89)
1975
Il suo coraggio è fatto di tre ingredienti tipicamente toscani: la protervia, la spavalderia e la beffa. Si sarebbe trovato più a suo agio nella Firenze medicea che nella Roma attuale. (p.94)
ARNALDO FORLANI p.96
1975
… a Forlani manca il cosiddetto «carisma», cioè quella cari ca di prestigio e di autorità che qualifica al comando assolu to. E buon per lui. Se lo avesse, gli «amici» a quest’ora lo avrebbero già fatto a pezzi. Perché la verità a cui bisogna ras segnarsi è questa: che nella De, così come forse in tutti gli al tri partiti (eccetto, si capisce, quello comunista, che non è un partito, ma una chiesa), un altro De Gasperi non può nasce re, e nemmeno un altro Fanfani.(p.96)
REMO GASPARI p.101
LICIO GELLI p.103
1981
Se questo è il Gotha italiano, figuriamoci il resto. Secondo me, meritano davvero la galera. Non per as sociazione a delinquere, come dicono gl’inquirenti, ma per baggianeria e sconsideratezza. (p.103)
Eppure un’oretta di colloquio con lui fu largamente sufficiente a convincermi che avevo a che fare con uno dei più smaccati venditori di fumo che avessi mai incon trato in vita mia. (p.104)
PANFILO GENTILE p.105
GUGLIELMO GIANNINI p.107
GIOVANNI GORIA p.110
GIOVANNI GRONCHI p.112
GIOVANNINO GUARESCHI p.114
1968
Guareschi non era affatto un intellettuale. Aveva letto e studiato poco. Egli stesso riconosceva che il suo vocabolario si riduceva a trecento parole, che non sempre erano combi nate in maniera sintatticamente impeccabile. Delle grandi correnti del pensiero contemporaneo non sapeva nulla, e an zi direi ch’era assolutamente estraneo a tutto il mondo mo derno, nel quale si sentiva spaesato e a disagio. Ma in com penso c’erano in lui una schiettezza, una immediatezza, una limpidità di coscienza e un calore umano che conquistavano il lettore molto più di quanto avrebbe potuto fare qualsiasi artificio. Tutti sentivano in lui un uomo vero. Le sue polemi che potevano essere sbagliate, ma erano sempre sincere. (p.114)
1981
Gli hanno dato di fascista, ed è un’altra calunnia: Guareschi s’infischiava delle ideologie, e ne rideva. L’unica etichetta che gli si può attribuire è quella di anarchico, bastian contra rio in perpetua guerra con tutti i conformismi, di destra e di sinistra.
UGO LA MALFA p.116
1962
Non ha regola né per mangiare né per andare a letto. Ma si alza a ore inverosimili, anche alle tre o alle quattro del mat tino, per sbrigare la corrispondenza, per preparare un di scorso o un’intervista, per leggere i giornali e soprattutto – ahimè! – per telefonare agli amici e spronarli a insistere, a persistere, a lottare, lui che la sera prima li aveva lasciati in una nera fumata di disperazione.
1971
La Malfa non è sempre buon parlatore. In comizio, per esempio, non lo è quasi mai. Lo slogan orecchiabile, la frase a effetto, il martellamento predicatorio, la contrapposizione rozza e sommaria, che tanto piacciono alle folle, e ne colpi scono l’immaginazione, non sono del suo repertorio. Inoltre, non sa nascondere i suoi umori, che molto spesso son malu mori e tramutano il suo discorso in requisitoria. (pp.116-117)
1975
La Malfa non è un politico dei soliti, calcolato e a sangue ghiaccio: in quello che dice ci crede, lo soffre, ne bolle e ri bolle. (p.117)
1979
… di strateghi, scomparso Moro, era rimasto lui solo, La Malfa: con le sue inquietudini, coi suoi variabili umori, con le sue siciliane impuntature, ma anche col suo fiuto, il suo intuito, la sua inesauribile immaginazione, la sua visione a lunga gittata, talvolta troppo lunga. «Se non fossi cieco, sarei presbite», mi disse un giorno. Ed era vero. Per guar dar lontano, a volte non vedeva l’ostacolo vicino e c’in ciampava. (p.118)
GIORGIO LA MALFA (p.120)
GIORGIO LA PIRA p.122
1990
Come uomo La Pira era rispettabile, magari anche diverten te. Come politico – e voleva esserlo — era come lo considera va De Gasperi, detestabile. (p.124)
ACHILLE LAURO p.125
Lauro non pretese mai fare di Napoli una città moderna, funzionale ed efficiente. Si contentò di riverniciarne la fac ciata. Ma soprattutto fu il solo sindaco che sia riuscito a met tere un minimo d’ordine a Napoli col consenso dei napoleta ni che all’ordine sono, come tutti sanno, piuttosto allergici. Accettavano quello di Lauro perché era un ordine anch’esso napoletano, imposto con una mano che dà lo scappellotto e con l’altra che offre il pacco di pasta, e appellandosi più al buon cuore che al civismo di una popolazione che di cuore ne ha tanto, ma di civismo punto. (p.126)
GIOVANNI LEONE p.127
1961
Del resto credo che Lombardi, più che ad annodare complot ti o a stampare volantini, abbia trascorso quel periodo1 a stu diare a fondo, e forse di qui gli è derivato quel carattere soli tario che gli rimane appiccicato addosso anche quando sta con gli altri e che, in un certo senso, lo fa poco «compagno» anche dei suoi «compagni». Capisco benissimo che fra costo ro ci siano per lui delle antipatie, se non proprio delle diffi denze. Il socialismo italiano, pur parecchio aggiornandosi nel costume, ha serbato un certo carattere sagraiolo, su cui il re moto e riservato Lombardi fa stecca. Egli dà del tu a tutti, batte la mano sulla spalla di tutti, ma si vede che gli costa un certo sacrificio e se ne vendica dando del «lei» a se stesso.(p.130)
1963
Un suo compagno di partito mi ha detto dell’onorevole Lombardi: «Vive di polemica. Soffre solo se si dice bene di lui». Se questo è vero, l’onorevole Lombardi deve avere avu to una vita invidiabilmente felice. A guardarlo, tuttavia, non si direbbe. Egli porta a zonzo un volto notturno e tempora lesco solennemente cupo. (p.131)
LEO LONGANESI p.134
1952
Egli è un insuperabile maestro nell’arte di farsi nemici. (p.135)
PIETRO LONGO p.138
GIOVANNI MALAGODI p.139
GIOVANNI MARCORA p.141
CLAUDIO MARTELLI p.142
MINO MARTINAZZOLI p.143
ENRICO MATTEI p.144
Mattei è un imprenditore di altissimo bordo. Possiede non solo tutte le qualità, ma perfino i difetti del grande co struttore: l’introversione, la mancanza di calore umano, la malinconia puritana, la tendenza monomaniaca a concen trare tutte le proprie facoltà sull’essenziale, la certezza quasi mistica di una missione da compiere, la capacità di mentire credendo nelle sue bugie e perfino commuoven dosene. Gli è mancata una cosa sola perché da tutte queste doti sortisse qualcosa di utile alla società: uno Stato che sappia sfruttarle, il che vuol dire anche controllarle e fre narle. (pp.145-146)
1985
Personalmente incorruttibile, corruppe tutta la vita politica, comprando uomini e partiti e dettando un modello di servitore-padrone dello Stato, che purtroppo doveva fare larga scuola. (p.146)
MARIO MELLONI (Fortebraccio) p.148
CESARE MERZAGORA p.149
MARIO MISSIROLI p.151
ALBERTO MORAVIA
In aereo, da Rio a Recife, ho trovato la collezione del Corrie re della Sera con gli articoli che Moravia viene scrivendo da Chicago e Nuova York. Egli parla dell’America col sordo rancore con cui ne avrebbe parlato Cristoforo Colombo, se non fosse riuscito a scoprirla.
Parla come i canguri saltano, a frasi rotte e smozzicate, ad af fermazioni categoriche e perentorie, anticipando coi suoi gli stupori, le risate, le esclamazioni degli altri.
Ma quel che dice è di prima qualità. Osservatore attentis simo e profondo, Moravia non è soltanto il grande roman ziere che tutti conoscono, ma anche un formidabile reporter nel senso più alto e nobile della parola. Con quei suoi occhi da gufo, vede tutto. E da un particolare d’insignificante ap parenza sa indurre con sbalorditiva sicurezza la più comples sa situazione generale. (pp.152)
… se c’era un uomo incapace di fingere e di giocare al perso naggio, era Moravia. Non ho mai conosciuto qualcuno altret tanto fedele al proprio inquieto e scontroso temperamento e che lo portasse scritto con altrettanta chiarezza nel volto acci gliato e negli scatti e scarti d’umore, che erano quasi sempre di malumore. Una volta che, giovanissimi, ci trovammo a fare insieme un lungo viaggio in Grecia, non cessò mai di amareg giarmelo piombandomi ogni mattina in camera ad ore quasi antelucane per annunziarmi il maltempo. Quando aprivo la finestra restavo accecato da un sole sfolgorante. Forse aveva ragione Pannunzio a dire che in Moravia c’era un fondo in fantile, da Giamburrasca ritardato, che lo portava al dispetto.
Del Moravia maìtre-à penser, sempre pronto a firmare ap pelli, proteste, denunce, non ho mai condiviso nulla. Ma escludo che la frenesia fumaiola gli fosse suggerita, come lo era in quasi tutti gli altri di quella parte, dall’esibizionismo e dall’ostentazione. Era il carattere inquieto ed erratico, di eterno fuggiasco anche da se stesso, che lo predisponeva alla scontentezza e alla contestazione. Eppure, con tutta la sua ansia di partecipare, riuscì sempre a restare un isolato, anche tra i suoi figli, o che si consideravano tali. Ed è questo che lo mette parecchie spanne al di sopra di loro. (p.153)
ALDO MORO p.154
PIETRO NENNI p.159
ACHILLE OCCHETTO p.162
Il personaggio è senza dubbio di serie B, un comprimario. Ma c’è da chiedersi se il Pci attuale merita e può dare qualcosa più di un comprimario. (p.162)
LEOLUCA ORLANDO CASCIO p.164
PADRE PIO (Francesco Forgione) p.165
Il suo candore e la sua buona fede sono fuori discussione. Un po’ meno lo sono, credo, quelli dei suoi seguaci, sebbene commetterebbe un grande sbaglio chi credesse che costoro siano animati soltanto dall’interesse. (p.166)
GIANCARLO PAJETTA p.167
Fu così che venne fuori il Pajetta del luogo comune, l’agitato permanente, il saltimbanco di Montecitorio, il costrut tore di barricate a vuoto, l’uomo che quando si metteva a se dere in un ristorante ordinava una rivoluzione al dente, che gliela servissero calda, e subito. (p.167)
GIACINTO (MARCO) PANNELLA p.171
Tra una fumata di hashish e l’altra, un soggiorno in carcere e l’altro, Pannella trova il tempo di frequentare i salotti, di par lare nei comizi, di scrivere sui settimanali a grande diffusio ne. Mai il barricadiero di una rivoluzione immaginaria e so stitutiva fu altrettanto vezzeggiato. La logica del consenso e del conformismo che lo circonda è in realtà la stessa che, in tempi più duri, circondava i restauratori e i forcaioli. (p.171)
Per capire Pannella (anch’io ci ho messo del tempo), bi sogna rivoltarlo, come si faceva con le stoffe inglesi di una volta, il cui rovescio era meglio del diritto. Visto di faccia, è un brancaleone, uno sparafucile, un saccheggiatore di pollai, un gigionesco mattatore, capace di rubare il posto a un mor to nella bara pur di mettersi al centro del funerale. Ma è an che lo sceriffo che, disarmato, va a sfidare il gangster nella sua tana. (pp.171-172)
Pannella, se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo perché è l’unico uomo politico che non agisce solo per calcolo e, se commette errori (come spessissimo gli capita), si tratta di errori che odorano di bucato. (p.173)
MARIO PANNUNZIO p.174
ALESSANDRO PERTINI p.176
Non è necessario essere socialisti per amare e stimare Perti- ni. Qualunque cosa egli dica o faccia, odora di pulizia, di lealtà e di sincerità. (p.176)
Le profezie sono sempre pericolose. Ma io mi sento di azzar darne una: Pertini passerà molto probabilmente alla storia come il Presidente più «popolare» che la Repubblica fin qui abbia avuto. (p.177)
FLAMINIO PICCOLI p.182
LEOPOLDO PIRELLI p.184
MARIANO RUMOR p.185
GIUSEPPE SARAGAT p.187
EUGENIO SCALFARI (1924)
Non è un uomo, è un tafano che, non avendo requie, non ne dà a nessuno. E forse è proprio per questo che non riesco a fare a meno di lui. Mi punge, ma mi tiene sveglio. Qualche volta mi chiedo se non sia la mia coscienza, ma finisco sem pre per respingere il terrificante dubbio. Se fosse vero, non mi resterebbe che il suicidio.
Il guaio di Scalfari non è che dice quel che pensa. Il guaio di Scalfari è che pensa quel che dice.
OSCAR LUIGI SCALFARO p.192
MARIO SCELBA p.194
LEONARDO SCIASCIA p.196
1989
Una volta chiesi a un suo compaesano, che sicuramente se ne intendeva, come mai la mafia consentiva a Sciascia di con tinuare a denunziarne pubblicamente fatti e misfatti. Rispo sta: «Perché la mafia sa distinguere gli uomini di rispetto dai quacquaracquà. E Sciascia, anche se nemico, sempre uomo di rispetto è». Quando lo dissi a Sciascia, inarcò appena le sopracciglia e non pronunciò parola. Ma ebbi l’impressione che, sebbene quella definizione di «uomo di rispetto» si pre stasse a qualche equivoco, ne restasse lusingato. (p.197)
ANTONIO SEGNI p.198
MICHELE SINDONA p.200
EDGARDO SOGNO p.202
GIOVANNI SPADOLINI p.203
PAOLO EMILIO TAVIANI p.208
UMBERTO TERRACINI p.209
PALMIRO TOGLIATTI p.210
PALMIRO TOGLIATTI
Io non ho mai visto Togliatti che di lontano, e ho per lui la stessa simpatia che gli abitanti delTAfrica Equatoriale im magino che possano avere per la mosca tzè-tzè. Quando sep pi che aveva divorziato, trassi un respiro di sollievo, perché mi parve di vedere in questo episodio la garanzia ch’egli condivideva il carattere nazionale, cioè il carattere di un po polo che le rivoluzioni le ha sempre fatte per abolire il Lei, prendersi delle amanti, battere familiarmente la mano sulla spalla del superiore e rubargli l’argenteria senza timore di finire in prigione. Ma alcuni giorni or sono lo incontrai sul rapido Milano-Roma. Viaggiava con la signora Jotti in uno scompartimento accanto al mio, sulla cui porta incrociava una guardia del corpo dall’aria poco invitante. E dal modo com’era vestito e si comportava con la sua compagna, com presi, con una certa costernazione, che l’incoraggiante epi sodio del rinnovo della moglie doveva considerarsi del tutto occasionale. Quando arrivammo alla capitale, fece un cenno alla guardia, perché traesse giù dalla rete le valigie, nello stesso stile con cui i colonnelli della Wehrmacht impartiva no ordini ai loro attendenti, aiutò la signora Jotti a infilare il cappotto, e dovevate vedere lo sguardo che lanciò al bigliet taio che, nel passargli davanti, gli toccò cameratescamente il braccio dicendogli: «Ecco, Togliatti, siamo arrivati!…», e procedé oltre. Fece bene a non voltarsi. La maschera di ghiaccio calata sul volto del Migliore e lo sguardo mescolato d’ira e di disprezzo che lampeggiò dietro i suoi occhiali avrebbero tolto al ferroviere ogni fede nel colossale dopola voro, nella totalitaria pappecciccia in cui certamente anche lui, da buon italiano, sogna che la gran palingenesi proleta ria abbia da risolversi.(pp.210-211)
1963
è un uomo di chiesa, anzi di curia, più che di folla e di piazza, e la sua carriera si è fatta nel mon do chiuso dell’«apparato» più che nelle agitazioni di massa. (p.212)
… è uno dei pochissimi capi comunisti che, avendo vissuto molti anni vicino a Stalin, sia riuscito a sopravvivergli. Per non diventarne la vittima, se ne fece complice.
Non era affatto un grande oratore, e non ne aveva nemmeno l’ambizione. Sul podio ci saliva malvolentieri, non vi eserci tava nessun magnetismo, e il suo discorso procedeva con una certa didattica monotonia a cerchi concentrici e per ripeti zioni ampliate, senza mai badare all’effetto: metodo perico loso di fronte a platee come le nostre, ubriache di eloquenza e innamorate della «cavatina». Questa opacità tribunizia de rivava di certo dalla mancanza di allenamento: nei regimi co munisti i capi non usano dialogare con le masse, le loro ster minate allocuzioni sono da sinedrio di «iniziati». Ma forse in Togliatti c’era anche dell’altro: un aristocratico disprezzo per la piazza e la folla. (p.212)
1987
Togliatti era un aristocratico: non aveva nemmeno il linguag gio della piazza, in cui invece brillava Nenni, come già vi aveva brillato Mussolini. Quando, rientrato in Italia nel ’44, fu interpellato col tu da un «compagno» che da buon italia no credeva che il comuniSmo cominciasse dalla sbracatezza, Togliatti lo fulminò con un gelido: «Grazie, compagno, pos siamo darci del lei». (p.213)
PIETRO VALPREDA p.215
BRUNO VISENTINI p.217
BENIGNO ZACCAGNINI p.218
VALERIO ZANONE p.220
LEGENDA p.221
NOTE p.223
NOTE BIOGRAFICHE p.243
INDICE DEI NOMI p.259
SOMMARIO p.265