«Forza Ragazzo!» di fronte al disastro, Di Kenzaburô Ôé

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«Forza
Ragazzo!»
di fronte al
disastro
O
perché la lettura degli ultimi romanzi di Céline è stata decisiva
per il Giapponese Kenzaburô Oé, premio nobel per la letteratura nel
1994, ossessionato dall’orrore della bomba atomica.
Di
Kenzaburô Ôé
TRADUZIONE
                     Stefano Fiorucci e Jeannine Renaux
La
lettura di
Nord,
nell’autunno del 1960, fu per me un shock, con delle importanti e
complesse ripercussioni. Avevo 25 anni e cominciavo appena a
guadagnarmi la vita come scrittore. Arrivo adesso all’età che
aveva Céline quando terminava la sua «trilogia tedesca», e
riconosco, mentre il mondo intero è scosso da avvenimenti come l’11
settembre a
New York, i bombardamenti in
Afghanistan o il conflitto israelo-palestinese, che da allora non mi
sono ripreso da quello schock. Quante volte, in questi ultimi
quarant’anni, ho fatto orecchio alle sue parole d’esortazione:
«Forza ragazzo!»
All’epoca, le pubblicazioni francesi
contemporanee erano difficili da trovare, se non si era specialisti.

Studiavo la letteratura francese, avevo consacrato una
parte della mia giovinezza a Sartre, e avevo letto Voyage au bout
de la nuit
solo perché Céline aveva influenzato Sartre. È a
quel tempo che il mio professore universitario mi regalò il nuovo
libro di Céline pubblicato da Gallimard. Senza alcun motivo, anche
se aveva certamente un’idea in mente un fine… Quel giorno lì,
ero stato a trovarlo per annunciargli la mia intenzione di rinunciare
a proseguire i miei studi di dottorato. Il mio matrimonio c’entrava
senza dubbio in qualche modo in questa decisione d’interrompere la
mia carriera di ricercatore per il mestiere di romanziere, per il
quale avevo già qualche prospettiva. Quello che era allora solo una
vaga attrazione divenne presto una necessità assoluta. Quanti altri
giovani si sono da allora proclamati scrittori con fervore, citando
Céline: «cronista fedele!… bisognava esserci certo… le
circostanze! Non sono tutti …»

Avevo parlato al mio professore del viaggio che aveva
appena fatto in Cina. Ero stato il più giovane scrittore d’un
gruppo rappresentativo d’un movimento cittadino oppositore del
nuovo patto di sicurezza giapponese-americano. A Pechino, ci avevano
condotto, in piena notte, per un sentiero invaso dal profumo che
stordisce dei tuberi, fino a una piccola villetta nascosta dove ci
attendeva Mao Zedong. Seduto al posto d’onore, fumando una dietro
l’altra le sue sigarette Grand Panda, ci aveva accordato
un’intervista costituita unicamente da citazioni delle sue opere,
facendo finta di rivolgersi esclusivamente al suo Primo ministro Zhou
Enlai.

Suppongo che il mio professore volesse vedere come avrei
reagito a parole come «Cina» o «Cinesi» di cui Céline, che era
ovviamente visionario anche se isolato, aveva infarcito il suo
nuovo libro, con simbolismo forte e diretto. Ma c’erano anche altri
potenti simboli in quel romanzo: Hiroshima e la bomba atomica. E
Hiroshima era uno dei temi principali della mia stessa vita. Il mio
professore aveva già tradotto un’opera denunciante gli inizi del
nucleare, questione attuale ancora oggi. O forse, aveva letto su
L’Express la critica di Jean-Louis Bory che diceva di vedere
in Bardamu, che incarna Céline, il Pantagruel dell’era
atomica? Perché quel professore*pure, aveva consacrato allo stesso
modo la sua vita alla traduzione e allo studio di Gargantua e
di Pantagruel. [*Si tratta dell’accademico Kazuo Watanabe
(1901-1975) grande esperto di Rabelais in Giappone, che ha
profondamente segnato tutta una generazione di studenti. N.d.R.].

Dovevo dedicarmi al «caso Céline», che non era
risolto con la semplice lettura di Nord, problema che non ho
del resto mai risolto interamente. Anche se una prudenza istintiva mi
spingeva a non dedicarmici troppo, se volevo trovare la fama come
scrittore. Ma ciò non mi ha impedito di continuare a leggere le sue
opere nella misura in cui poteva procurarmele.

Perché Nord mi aveva già offerto una suprema
gioia della lettura. La scena in cui alcune prostitute di Berlino,
evacuate e messe in isolamento, si ribellano menando un vecchio in
tenuta militare, che loro hanno fatto prigioniero su una landa
deserta prima di mangiare il cavallo che è accorso in fretta in suo
soccorso, è descritta con un giubilo incredibile. Spinto dalla
«forza d’inerzia» indotta dalla narrazione, Céline dà prova
d’una esaltazione straordinaria. La storia in sé e il vigore del
suo stile, che sono alla base di quello che ho definito sopra il
problema Céline, ci trascinano in un universo in cui, per effetto
vicino al cannibalismo, la lingua originale finisce per nutrirsi del
romanzo. E io, avevo la convinzione piena di speramza, fondato su
niente di concreto, che questo orientamento poteva sfociare anche
nella lingua stessa del romanzo…

Il mio percorso di romanziere fu allora modificato dalla
nascita d’un bambino handicappato, cosicché la mia vita con lui
divenne il soggetto principale del mio lavoro. Parallelamente,
approfondivo i miei legami con le vittime di Hiroshima. Hiroshima,
come il problema Céline, era al centro stesso di questa citazione
estratta da Nord: «Con il tempo, vent’anni dopo, le testate
atomiche sono pronte, settantacinquemila, sembra, fantasticamente
desiderate, meritate! Che le lancino e che schizzino Dio bono,
veloci! Disatomizzandosi,, tutti! Schizzi cosmici!…»

Le vittime contaminate a Hiroshima e a Nagasaki
continuano ancora oggi il loro movimento cittadino a favore della
distruzione delle armi nucleari, inseguendo l’ideologia atomica
nelle sue ultime trincee. Si presentano perfino come vittime
universali di fronte ai potenziali aggressori che sono paesi come la
China in Asia.

Mi sono sempre battuto al loro fianco.
Il governo giapponese si è posto sotto la protezione dell’«ombrello
nucleare» americano. Si è giustificato moralmente dichiarando che i
«tre principi alla base della lotta antinucleare», ossia non
fabbricare, non lasciar entrare né uscire alcuna arma nucleare,
costituiscono una ragion di Sato. Ma, dall’inizio, aveva approvato
un accordo segreto, cioè che chiuderanno gli occhi gli occhi
sull’introduzione di armi nucleari attraverso le navi dell’esercito
americano. Céline è sempre stato presente nel mio spirito quando
militavo per la distruzione delle armi nucleari, quando conoscevo
benissimo l’esistenza di questa impostura di un paese intero, di un
intero popolo.

Nei miei scritti su Hiroshima, ho riportato come i
medici, loro stessi contaminati, completamente disorientati in merito
ai mezzi terapeutici da impiegare, in mezzo alle rovine dove anche i
medicamenti mancavano, si sono presto messi al lavoro con accanimento
per tentare di strappare alla morte quelli che potevano esserlo,
superando una ad una le difficoltà che si presentavano.

Lì, nel corso della mia indagine, sul tema dei medici a
Hiroshima e Nagasaki, mi ritorna molto naturalmente alla memoria il
combattimento accanito del dottor Destouches contro la guerra. E
leggevo Rigodon durante tutti quei giorni in cui affrontavo
accanto a mio figlio handicappato le dolorose e impreviste difficoltà
del passaggio dall’infanzia all’adolescenza.

Céline, che si è preso cura dei bambini handicappati
nell’Amburgo in rovina, mentre fuggiva in treno le devastazioni
della guerra, vaga nelle strade alla ricerca di cibo: «Allora mie
piccoli! Andiamo! Voglio che mi seguano… io guido… questa energia
«forza ragazzi» pazzo non pazzo mi resterà sempre… quello che si
apprende nella prima giovinezza che vi resta gravata… dopo sono
solo falsità, copie, fatiche, inchini a volontà…»

Céline è anche un esperto delle parole, con un
impatto paragonabile, con il 20° secolo, a quello di Dostoevski
dicendo verso la fine della sua vita che «ragazzo» è più che
tutto il resto una parola particolare. E sorpassa la misura di
Dostoevski, nella misura in cui mette molta più energia nella
descrizione dei ragazzi che che incontra nel suo doloroso viaggio…

Se si considera, nelle frasi di Céline, la
sovrapposizione del presente del racconto al presente del tempo della
scrittura, si può dire che non ha cessato d’impegnarsi
attivamente, prendendosi a carico le situazioni difficili, cosa che
ha fatto di lui un testimone del 20° secolo tanto quanto un profeta.
Oggi, è diventato difficile negarlo, qualsiasi cosa facciamo,
finiamo inesorabilmente in quello che è vano, come l’ha predetto
con una gioiosa franchezza.

In quest’inizio di 21° secolo, numerosi scrittori
devono far fronte ai fatti che scuotono il mondo intero, come l’11
settembre a New York, i bombardamenti in Afghanistan, o il conflitto
israelo palestinese, senza possedere lo stile e il vocabolario di
Céline. Ne faccio parte anch’io… Senza ragione vera, senza che
ci sia legame con una prospettiva certa, presto attenzione a queste
parole d’esortazione: «forza ragazzo!…»

È così che continuo a lavorare da quarant’anni
sciroppandomi il problema Céline. Immaginando naturalmente il ridere
di quel vecchio gigante, riconoscendo in fondo al cuore che, nel
passaggio in cui definisce se-stesso, sono io che parlo. «In questo
sono forte: memoria, discrezione…»

Tradotto dal giapponese da 
Rose-Marie Makino-Fayolle