DANILO DI LUCA – BESTIE DA VITTORIA


DANILO DI LUCA – BESTIE DA VITTORIA
PIEMME – I ed 2016

CON ALESSANDRA CARATI

In Bestie da Vittoria, Danilo Di Luca racconta senza filtri la propria carriera ciclistica (messa nero su bianco da Alessandra Carati), confessando il decennale uso di sostanze “curanti” e spiegando nel dettaglio le modalità di assunzione delle stesse, ripercorrendo altresì le principali gioie e delusioni sportive e della vita privata.
Ottimo libro, consigliato non ai soli appassionati di ciclismo…

27 maggio 2013

Sono sdraiato sul letto e guardo il soffitto del bilocale dove vivo dopo la fine del mio matrimonio. La casa sembra an­cora incartata nella plastica, nel frigo ci sono solo un paio di bottiglie d’acqua.
Osservo i miei piedi, sono nudi, magri, con la pianta stretta e affusolata. Sono piedi buoni per spingere sui pedali, per imprimere una potenza di 450 watt e far arrivare la bici su per le salite più dure.
Questo so fare nella vita, correre in bici.
Fuori dalla finestra il Gran Sasso si mostra in tutta la sua bellezza. Spesso mi chiedono perché non ho lasciato l’A­bruzzo per correre in una squadra del Nord. Non hanno imi visto il Gran Sasso a maggio, non sono mai arrivati in cima a Passo Lanciano quando scavalli la montagna e il mare è solo una striscia blu che ti lasci alle spalle e le nuvole sono così vicine che puoi arrivare a toccarle.
Due giorni fa stavo per correre le ultime tre tappe del Giro, poi la comunicazione della positività ai controlli an­tidoping. Non ho bisogno di aspettare sentenze ufficiali, so che la mia carriera è finita.
Non rimpiango niente, ho interpretato il mestiere come fanno tutti gli atleti agonisti. Il ciclismo di oggi non è più lo sport che ho amato.
Sono stanco della solitudine della menzogna di nascon­dermi, non di andare in bici.
Nella vita la bici mi ha dato tutto, è l’unica cosa che mi ha dato tutto. (pp.9-10)

La “cura” è la sostanza, dopante e non: vitamine, aminoa­cidi, integratori, proteine, disintossicanti, EPO, cortisone, or­moni di vario tipo, corticosteroidi, testosterone.[…]

Verso le undici sono rientrato a casa, ho sistemato la vali­gia e ho continuato la cura di EPO che avevo cominciato venti giorni prima. Ho preparato siringa da insulina, alcol, cotone, laccio emostatico e ho preso la fiala dal frigo. Le fiale sono da 4.000,10.000,20.000 o 40.000 unità. Ho aspirato 500 unità, una microdose, poi ho rimesso la fiala in frigo. Quindici anni fa, prima dei controlli sull’ematocrito, qualcuno arrivava a farsi anche 4.000 unità al giorno. Una follia. (p.10)

I ciclisti sono degli eccellenti infermieri, dopo anni di espe­rienza sul proprio corpo sono perfettamente in grado di di­stinguere tra una puntura sottocute e una in vena, e sanno praticarle entrambe. Per loro bucarsi è molto semplice e poco rischioso.
Conosco tempi e quantità: per 500 unità di EPO in vena i tempi di rintracciabilità sono dalle 3 alle 6 ore, più aumenta la quantità più aumentano le ore di emivita del prodotto nel sangue e nelle urine.
Con 500 unità ero tranquillo, anche fossero venuti la mat­tina dopo sarei risultato pulito.
Non avevo mai rischiato in passato e tantomeno quella volta: avevo l’EPO di ultima generazione, la quantità giusta, la mano leggera e precisa. (p.11)

Il 24 maggio 2013, mentre sono in gara, mi comunicano la positività. Lascio il Giro, lascio il ciclismo, lascio lo sport. Scopro che hanno modificato il metodo d’indagine, hanno trovato il sistema di rilevare la presenza di EPO nel sangue fino a 24 ore dopo l’assunzione. I miei calcoli non sono ser­viti a niente.
Sono il primo a cui è stato riservato l’onore del nuovo ri­trovato, ora la voce si spargerà e tutti gli altri si regoleranno.
Mi dico che se avessi avuto il medico giusto l’avrei saputo in anticipo.
Se avessi avuto la squadra giusta sarei stato protetto.
Avrei potuto non aprire al controllo, certo.
Non avrei mai potuto non doparmi.
Il doping migliora la prestazione di una percentuale che sta tra il 5 e il 7% e può arrivare al 10-12% quando sei in un picco di forma.
Se non mi fossi dopato non avrei mai vinto.
Il 5 dicembre 2013 sono radiato a vita dal Tribunale di giu­stizia sportiva del CONI, un primato nella storia del ciclismo italiano.
Non mi pento di niente.
Ho mentito ho tradito ho fatto quello che dovevo fare per arrivare primo, ma non è il punto, il punto è che non ho fatto la profilassi al sistema. (p.14)

1 – p.15

Quando sei un ciclista professionista passi 330 giorni all’anno in sella a una bicicletta, tra gare e allenamenti. Ogni giorno consumi tra le 5.000 e le 7.000 chilocalorie – il con­sumo medio di una persona normale è tra le 2.000 e le 2.500. (p.16)

2 – p.17

Nel ’95 passo da juniores a dilettante. Ho 19 anni e corro con gente di ogni età, anche ex professionisti. Si fanno di tutto.

Quelli che battevo con facilità mi sfrecciano accanto, sono dei bolidi. “Come cazzo è possibile?” continuo a ripetermi mentre li vedo sfilare uno a uno con le facce di chi sta facendo l’uscita della domenica. Io fatico come un dannato, sudo, en­tro in lattosi e i battiti mi salgono a centottanta. Non mollo, anche quando mi staccano e capisco che non ne ho più.
L’eccesso di acido lattico intossica i muscoli, porta a una richiesta sempre mag­giore di ossigeno alle fibre e a un successivo rallentamento della contrazione musco­lare, fino a giungere al crampo. Provoca uno stato di estrema fatica e sofferenza fisica. (p.17)

Continuo a fare il resto ma la bici è la mia cosa speciale.
Da quel momento non ci sono state più feste di comple­anno, comunioni, sabati pomeriggio con gli amici, niente di niente, solo la bici.
Da piccolo ero timidissimo, avevo paura di parlare con le persone. La presenza degli altri mi faceva sudare, non mi sentivo adeguato, provavo il disagio di non essere mai al po­sto giusto. La bici mi ha dato coraggio, mi ha dato una carta d’identità con cui presentarmi al mondo. Lo sforzo la fatica l’ostinazione non erano niente, alle gare ero qualcuno. (p.18)

La geografia conta, e molto. Le squadre, gli sponsor, i corridori nascono al nord e se non ci nascono ci si trasferiscono. Nibali è siciliano, si è formato in una squa­dra toscana e ora vive a Lugano. Lo stesso Figueras, il mio grande antagonista nei dilettanti, è napoletano ma correva in una squadra lombarda. Essere defilato geograficamente significa essere tagliato fuori dalle relazioni che ti permet­tono di costruirti una visibilità, un’immagine, gli amici giusti. (pp.26.27)

3 p.28

Comincio a farmi qualcosa a ventuno anni, al terzo anno da di­lettante, tardi rispetto agli altri. Prima Santuccione non vuole.
«Carlo, com’è? Non vinco più.»
«Aspetta, stai tranquillo.»
«Sì, ma faccio una fatica del diavolo.»
«Non ti preoccupare.»
«Quelli mi passano.»
«Devi pazientare.»
Mi spiega che se comincio troppo presto mi brucio per­ché il fisico non è pronto, non è maturo. Prima devo mettere a punto il motore, farlo girare liscio altrimenti poi, quando metto la benzina a cento ottani, scoppio subito. Carlo non mi avrebbe mai fatto fare una cosa pericolosa, ha sempre vi­gilato sulla mia vita come un padre. (p.28)

Mi parlava anche dei farmaci, come non farlo? Eravamo alla fine degli anni ’90, il decennio in cui lo sport professio­nistico ha conosciuto l’impiego più sconsiderato e folle e sui­cida del doping. Il decennio dell’EPO, fino a una certa soglia tollerato e prescritto. (p.30)

È semplicistico e superficiale riportare tutto alla farma­cia. È questo che le persone fuori dall’ambiente faticano a capire. L’asino bombato è sempre un asino, il purosangue è sempre un purosangue. Pantani dopato e tutti gli altri do­pati, Pantani li massacra. Pantani senza niente e tutti senza niente, Pantani li massacra.
Ci sono sport dove non puoi improvvisare: ciclismo, sci di fondo, maratona. Se non ti alleni, se non hai un’alimentazione corretta, se non vai a dormire presto, non bevi, non fumi, se non sei perfetto, se come diciamo noi non “fai la vita”, non hai i risultati. E questa regola vale anche per chi è dotato di un talento speciale. Il talento non si esaurisce nelle doti fi­siche, l’atleta fisicamente dotato ma senza testa non arriva a grandi risultati, è un corridore normale. (p.31)

I ciclisti non sono un bene societario come i calciatori, non hanno un cartellino che si può vendere o comprare. Hanno un contratto d’ingaggio, possono scegliere quando andarsene e possono essere lasciati a casa con la stessa fa­cilità. Quando un ciclista viene trovato positivo è imme­diatamente scaricato dalla società che non è tenuta a corri­spondergli il resto dello stipendio, anzi si rivale su di lui per danno d’immagine, arrivando a chiedergli fino a 100.000 euro di risarcimento.
In questo sistema gli sponsor hanno bisogno di risultati per far fruttare gli investimenti, i direttori sportivi hanno bi­sogno di risultati per tenersi gli sponsor e i corridori hanno bisogno di risultati per strappare un contratto.
Il ciclista passa da dilettante a professionista per 35.000 euro l’anno, fa le cose come vanno fatte, vince tre, quattro corse importanti e l’anno dopo arriva a 300.000, fino ai 4-5 milioni dei corridori al top. Certo non tutti i somari diven­tano cavalli, devi avere qualcosa di molto buono di tuo.
Quando mancano venti giorni alla gara il DS ti chiede: «Come stai?».
«Così così.»
«Mettiti a posto.»
Significa che devi stare a posto coi valori del sangue. Nel momento in cui ti beccano non sa più niente nessuno. Ti hanno trovato positivo, sei una testa di cazzo, un figlio di puttana, hai rovinato la squadra, ti cacciano ti licenziano ti chiedono i danni.Quando i direttori sportivi dicono: «Non so niente», men­tono. Sono corridori cresciuti con la cultura dell aiutino, della farmacia e l’hanno tramandata, traggono un profitto dallo stato delle cose perché così la squadra vince e loro guada­gnano prestigio, premi, soldi.
L’ambiente non ti obbliga, ti sollecita perché tutti hanno interesse che tu vinca, che si crei il personaggio con la sua ri­sonanza mediatica, ma se non hai equilibrio sei morto perché quando ti trovano positivo (e succede a tutti prima o poi) sei solo, hai fatto tutto di tua iniziativa. (pp.34-35)

E allora se leggi sul bugiardino di un farmaco: «Sfonda­mento della retina, glaucoma, diabete, trombosi, ictus, poro­sità e fragilità ossea» e ti viene la paura e ti chiedi: “Ma che cazzo vado a prendere ’sta roba?” te la fai passare e ingeri­sci tutto quello che puoi ingerire, perché è l’unico modo per fare il tuo mestiere al meglio.
L’assunzione di sostanze illegali porta con sé la menzogna: mentiamo alla famiglia, alle mogli, ai giornalisti, ai massag­giatori, ai meccanici, perfino ai nostri colleghi. Ogni ciclista sa che tutti si dopano eppure nessuno parla e qualcuno so­stiene pure pubblicamente di andare “a pane e acqua”.
La menzogna è l’ultimo dei nostri problemi. Mentire di­venta naturale come respirare, non te ne accorgi nemmeno più e lo fai con tutti. La verità è che nessuno di noi pensa di sbagliare, facciamo tutto quello che un ciclista professioni­sta deve fare, per noi non è tradire lo sport. La verità è che tutti si dopano e che tutti lo rifarebbero, la verità per la so­cietà civile è inaccettabile.
Come si fa a dire la verità e a essere credibile?
Bisognerebbe accettare l’inaccettabile.
Nel ’97, al terzo anno da dilettante, sto come un sole e ini­zio con la farmacia, poca a dire il vero ma mi basta per vin­cere e ristabilire le gerarchie degli juniores.(p.36)

Un mese prima del Mondiale chiamo Carlo: «Sono in forma, sono pronto».
«Per il Mondiale non ti fai niente.»
«Sei pazzo? È il Mondiale.»
«No.»
«Carlo, saranno tutti curati.»
«Lo so, ma tu no.» (p.37)

4 p.38

L’EPO è un farmaco lento, funziona per accumulo, come la chemioterapia. Ordina al midollo osseo di produrre più glo­buli rossi, che portano ossigeno in giro per il corpo. In uno stato di fatica prolungata – come sono i primi giorni di un grande giro – l’ematocrito1 si abbassa fisiologicamente, l’EPO ti aiuta a mantenerlo alto. Se non prendi niente, durante una corsa di tre settimane il tuo ematocrito calerà di un paio di punti a settimana. Ogni punto percentuale di ematocrito perso è un punto percentuale perso in potenza.
Quando cominci a curarti, l’ematocrito si alza gradual­mente per raggiungere il picco durante la gara dove puoi go­dere dei benefici dell’aggiunta di globuli rossi.
“A pane e acqua” stai a tutta e gli altri ti passano, quando sei curato riesci a tenere il passo con una fatica minore. Ti senti bene, sano, forte. Sei in palla. La soglia di resistenza è spostata oltre il tuo limite naturale. L’EPO non ti evita la fa­tica, ti dà la possibilità di spingere di più. Quando pensi di avere dato tutto, hai ancora una riserva di carburante a cui attingere, puoi sfondare il tuo limite e uscirne vivo.
Quando succede ti senti onnipotente. (p.38)

In vista di un appuntamento cominci un mese prima e vai avanti per tutto il tempo della gara con dosi piccole, che non fanno impennare i valori. Puoi farti una microdose al giorno oppure una ogni due giorni, dipende da quanto sei stanco | e se hai altre corse nel mezzo. Puoi integrare anche col GH, l’ormone della crescita. La mattina il GH e la sera Pepo op­pure un giorno GH e un giorno EPO. Il GH di solito si finisce quindici giorni prima della gara perché è a rilascio più lento e l’organismo lo assimila meglio man mano che passa il tempo.
Dopo la gara smetti e fai uno scarico, stai al mare una set­timana, ti alleni, vai in altura dove stimoli naturalmente la produzione di globuli rossi. Riprendi a correre e non vinci, non sei al top della forma ed è inutile curarti. (p.39)

Il passaporto biologico1 ci ha salvato la vita. Non è tanto uno strumento di controllo – basta assumere con regolarità una sostanza per evitare che risultino anomalie -, ha evitato che ci ammazzassimo tutti. (p.40)

5 p.50

6 p.57

Il 1999 è l’anno orribile del ciclismo mondiale, è l’anno di Pantani e di Madonna di Campiglio.

Io non ci sono, dopo il numero di Monte Sirino, alla dodi­cesima tappa mi sono ritirato e sono tornato a casa. A metà Giro avevo già consumato tutte le riserve, non ero proprio a pane e acqua ma non avevo fatto tutto quello che si poteva fare. Avevo fatto solo EPO e in piccole quantità, gli altri erano curati completamente. Mi sono preso un periodo di riposo e mi sono preparato per il finale di stagione: gare premon­diali, Mondiale e Giro di Lombardia.

A due giorni dalla fine, Pantani ha dieci minuti di vantag­gio sul secondo, il Giro d’Italia è suo. A Madonna di Cam­piglio la mattina presto gli fanno un controllo a sorpresa, il suo ematocrito risulta superiore di quasi due punti al limite stabilito, 51,9 invece di 50.

Sulla vicenda è stato detto di tutto, ora la procura di Forlì ha chiesto l’archiviazione del caso dopo aver dichiarato che l’ipotesi di alterazione del test è credibile: pare che il cam­pione di sangue sia stato sostituito. Di mezzo c’era un giro multimilionario di scommesse clandestine, se Pantani avesse vinto, il banco sarebbe saltato.

È impossibile che un corridore che è in maglia rosa, che sa che mancano due tappe alla fine e sa che i primi dieci vengono controllati a ogni tappa, è impossibile che il giorno prima s

ifaccia qualcosa. Quando butti dentro Pepo i globuli rossi non aumentano immediatamente. Venerdì sera stai a 48 di ematocrito, ti fai 2.000-2.500-3.000 (sono le dosi di quel pe­riodo) e dopo tre ore la curva di crescita parte, sabato mat­tina stai a 51-52 e domenica mattina a 54.

Rischi di sforare i 50 e non lo fai, assolutamente no, per­ché tutti quelli che hai staccato il giorno prima li stacchi an­che nei due giorni successivi senza EPO.

L’hanno inculato, al trecento per cento.

Se un giorno venisse accertato in modo definitivo, biso­gnerebbe riavvolgere il nastro e ripercorrere le azioni e le parole delle persone che facevano il ciclismo in quegli anni, colleghi corridori, direttori sportivi, proprietari delle squa­dre, giornalisti, il ruolo della «Gazzetta».

Pantani era inviso a molti corridori perché vinceva sem­pre. Quando è stato trovato con l’ematocrito alto hanno pen­sato: “Uno in meno, magari vinciamo pure noi”. Non hanno capito che finito Pantani non ce n’è stato più per nessuno, perché lui ha dato da mangiare a tutti. Con lui si sono alzati gli stipendi perché ha reso il ciclismo più popolare. Quando Pantani ha creato il suo gruppo di fedeli, ci sono state per­sone che non valevano niente e hanno iniziato a guadagnare soldi. Per ignoranza quasi nessuno ha capito che a Madonna di Campiglio finiva Pantani e finivano le vacche grasse per tutti.

Quando lo hanno preso ho pensato: “È finito tutto”. Se in uno sport permetti che l’idolo assoluto sia infangato, but­tato in mezzo alla piazza per un ematocrito a 51,9 vuol dire che non esiste nessun tipo di tutela, di protezione. Se non è più credibile Pantani t’immagini noi altri? Se Pantani viene trattato come un cane t’immagini noi?

Nel 1993 Totò Riina aveva sei procure che indagavano su di lui, Pantani ne ha avute nove. Il PM che fa prendere un delinquente fa il suo mestiere, il PM che indaga su un cam­pione esce rafforzato, il suo nome è citato a raffica nei te­legiornali della sera, amplificato mille volte sui quotidiani nazionali, la sua immagine cresce in prestigio, il suo potere dilaga all’interno della procura. E non accade solo al PM, vale
lo stesso per il poliziotto che fa le indagini perché conosce il campione, ha potere su di lui, incide sulla sua vita. Al bar il poliziotto che arresta l’albanese ladro non se lo fila nessuno, invece il poliziotto che appare sul giornale mentre accompa­gna il campione in tribunale acquista peso nel suo ambiente e nella vita quotidiana, è guardato con occhi diversi. Quante volte hanno passato in televisione Pantani che scende le scale a Madonna di Campiglio scortato dai carabinieri in mezzo alla ressa? Dal 1999 a oggi mille volte, un’immagine scolpita nella memoria. Con Pantani i procuratori della Repubblica hanno sperimentato per la prima volta la possibilità di ac­quisire potere attraverso l’onda mediatica che genera un’in­dagine su uno sportivo di vertice, popolare e amato.
Di lui ricordo l’esperienza alle Olimpiadi del 2000 a Sydney, i venti giorni passati insieme. Era triste, più solita­rio e taciturno del solito, fuori forma. Non si capacitava di essere stato convocato. Dopo la gogna di Madonna di Campi­glio lo volevano alle Olimpiadi, gli avevano sputato addosso da tutte le parti e ora avevano bisogno di lui. Il CONI aveva detto che non si poteva lasciare a casa un uomo che era se­guito da sette milioni di tifosi. Pantani serviva, era utile. E lui, che era intelligentissimo e sensibile, vedeva tutto capiva tutto sapeva tutto e ne era devastato, ferito a morte.
Per capire la sua vicenda è proprio al CONI che bisogna guardare, tutto comincia lì dentro. Il Comitato Olimpico Na­zionale Italiano è un enorme collettore di voti, comprende le 45 Federazioni sportive nazionali, le 19 discipline sportive associate, i 14 Enti di promozione sportiva nazionali e uno territoriale (i circoli UISP, ACLI, Libertas e tutti gli altri) e 20 associazioni. Un bacino sconfinato di voti, milioni di elettori su cui mettere le mani.
Dal 1993 al 1998 il presidente del CONI è Mario Pescante, re indiscusso dello sport italiano a livello internazionale, 20 medaglie alle Olimpiadi di Lillehammer, il trionfo di Yuri Chechi e i 4 ori del ciclismo ad Atlanta. Pescante è uomo di destra, anche se sarà eletto come parlamentare di Forza Ita­lia solo nel 2001.
Nel 1996 si insedia il primo governo Prodi, vicepresi­dente Veltroni. Nello stesso anno scoppia lo scandalo legato a Scarpa, ex canoista che aveva gareggiato alle Olimpiadi di Atlanta con Antonio Rossi. Scarpa dice che prima dei Mon­diali del ’94 la federazione gli ha iniettato a sua insaputa un farmaco proibito1. Già nel ’96 e poi in modo conclamato nel ’97 c’è un deciso cambio di rotta che usa il doping come stru­mento di pulizia e riassetto. Se si riesce a dimostrare che lo sport praticato fino ad allora è uno sport inquinato dall’uso di sostanze, allora Pescante che ne è stato promotore deve saltare.
Il colpo di grazia arriva ad agosto del ’98 con le dichiara­zioni di Zdenek Zeman sulla presenza di doping nel calcio e si chiude a ottobre dello stesso anno con l’enorme pasticcio che accade all’Acqua Acetosa. All’Acqua Acetosa ha sede il laboratorio antidoping di proprietà del CONI, dove sono con­trollati gli atleti di tutti gli sport e conservati gli esiti delle loro analisi. A settembre del ’98 dall’archivio del laboratorio scompaiono i test fatti sui giocatori di calcio. Un mese dopo vengono ritrovati durante una perquisizione della guardia di finanza, buttati nell’angolo di un sottoscala del laboratorio.
Il giorno del ritrovamento Pescante si dimette.
Comincia una politica in cui bisogna far vedere che si stanga. Il sistema è violento, ha bisogno di capri espiatori e dare l’esempio è doloroso ma necessario. Nel cambio di rotta, il primo vero agnello sacrificale è Pantani. (pp.57-60)

7 p.11

Prima del 2000, quando c’erano meno controlli, non si andava in altura perché si ricorreva alla farmacia. In altura l’ematocrito si alza di 2 o 3 punti, ma dopo 25 giorni cala e torna al tuo valore normale. Con l’EPO ti facevi 14.000 unità a settimana e con piccoli richiami stavi sempre 6-7 punti so­pra la media. Oggi con il passaporto biologico e gli altri con­trolli l’EPO si fa solo in microdosi. Allora si abbinano farma­cia e lavoro in quota. (p.65)

Ho corso le Olimpiadi con le pedivelle da 175 anziché da 170, ecco perché non ho reso. Per trent’anni ho abituato la mia gamba a una pedalata da 170 millimetri e da un giorno all’altro gliela faccio fare da 175. È come passare da un tacco 5 a un tacco 12. Mi spiego i crampi, l’ingolfamento e la bassa resa, nonostante l’ottima forma.

Sono scioccato. La pedivella è stata cambiata da qual­cuno, per forza. Qualcuno ha manomesso la mia bici per­ché non potessi essere competitivo. Comincio a formarmi un pensiero definito sulla qualità dell’ambiente in cui mi trovo, ogni mezzo è lecito al raggiungimento del fine, ogni bugia consentita. E soprattutto se sei fuori da certi giri è difficile imporsi, diventare davvero grande. (p.74)

Per quello scherzo mi sono giocato le Olimpiadi, ero in forma, potevo vincere, potevo prendere una medaglia o al­meno puntarci.
Comincio a sentire che ci vogliono delle protezioni, dei ^ santi in paradiso e io non li ho. (p.75)

8 p.76

9 p.80

Inizio a doparmi seriamente nel 2001 al terzo anno da pro­fessionista, testosterone, GH, EPO, corticosteoridi, cortisone, ormoni. Il medico non ti può somministrare il farmaco né farti la ricetta. Mi procuro tutto coi mercati paralleli. Basta andare nelle palestre. E poi c’è internet.
In gara ti porti la sostanza, vai in giro con una valigetta in cui c’è quello che ti serve. Solo i NAS possono perquisirti e vanno mirati. Chi ti controlla (UCI, USADA1, WADA, CONI) può prelevarti il campione di sangue e urina, non può perquisirti.
Siamo sempre noi a fare, metti il laccio e ti fai l’iniezione, | come un tossico. Quando ti capita un fuorivena, togli, chiudi e te lo fai nell’altro braccio. In vena nel braccio, sottocute nella pancia, alle gambe, dappertutto dove serve. La prima volta me l’hanno insegnato i colleghi poi ho iniziato a farlo da solo. Quando cominci ad avere dimestichezza con gli aghi, fai cose sul tuo corpo che per la gente normale sono impensa­bili, diventa naturale, sai che non sbagli oppure quando sba­fi gli te ne accorgi subito e rifai da capo. Che cazzo ci vuole a farsi una puntura? Impari a forza di farlo. Diventiamo come animali, come bestie. La gente non si rende conto che cos’è correre una tappa di 250 chilometri dopo venti giorni che sei in sella a una bici, la neve l’acqua il freddo il caldo la febbre la dissenteria il dolore la fatica. Prendere medicine non è niente in confronto.
Il 2001 è il mio ultimo anno con la Cantina Tollo e anche stavolta mi fanno correre il Giro. Tutti hanno la propria va­ligetta, io no, sono ancora acerbo.
Dopo il caso Festina2 nel ’98 al Tour de France abbiamo cominciato a stare più attenti. Prima parlavamo liberamente tra di noi e con la squadra. Durante le uscite di gruppo i di­scorsi erano doping, donne e macchine: «Cazzo, com’ero gonfio ieri, mi sono fatto troppo Synacthen, devo farmene di meno». E così si calibravano i dosaggi, si condividevano le proprie scoperte. (pp.80-81)

Prima del ’97 alcuni direttori sportivi facevano la squadra in base a quanto avevi di ematocrito, sotto i 60 non ti porta­vano. Mi dicevano che in gara erano i massaggiatori a occu­parsi delle sostanze, le portavano per tutti. C’erano i frigo nei camion e ognuno aveva la sua borsetta, passava il dottore e te la dava: «Tu questo… Tu quest’altro… Tu cosa ti devi fare?».
Poi raccoglieva le siringhe in un contenitore apposito e ogni tre quattro giorni, quando era pieno, lo buttava.
La roba era quella, EPO GH testosterone, uguale per tutti.
Ora paghi un dottore almeno 50.000 euro, cerca una cosa solo per te e tu non dici niente agli altri, così vai più forte. La lotta non è più ad armi pari.
Poi l’uci ha acquisito potere e le cose sono cambiate, è l’uci che decide chi controllare e quando, ma nessuno co­nosce i criteri e le logiche della scelta. Qualcuno è control­lato ogni tre mesi, qualcuno è controllato ogni tre settimane. È famosa tra i corridori una frase attribuita a Verbruggen1, presidente dell’uci dal 1991 al 2005: «Stai attento che ti fac­cio trovare positivo». L’antidoping è il randello del potere e le logiche di protezione sono i soldi.
A me l’ambiente fa schifo per l’ipocrisia che dilaga.

Se parli oggi coi ciclisti sono tutti puliti, tutti a pane e ac­qua. Poi vai a guardare i grandi giri e ti accorgi che dal 1980 al 1990 la velocità media del Tour era di 37 chilometri all’ora, dal 1995 al 2005 è cresciuta fino a raggiungere i 41,6 chilo­metri all’ora.
Sono solo cambiate dosi sostanze prezzi e protezioni, non è cambiato il sistema. Se mi chiedi: hai preso qualcosa? Ti dico: sì, ho preso tutto quello che mi faceva andare forte.
In televisione ci sono ex corridori che si sono mangiati di tutto. Qualcuno si svegliava di notte per prendere l’a­spirina e stare in sintonia con le funzioni vitali, qualcun al­tro alle due del mattino si metteva a pedalare sui rulli per buttare giù l’ematocrito. Qualcuno a 47 anni ha già fatto un infarto.
Una volta Michele Ferrari2 disse: «È doping tutto quello | che risulta ai controlli antidoping». Ha costruito una car­riera sull’evitare la positività ai controlli per i suoi assistiti.
Quando assumi un farmaco la reattività individuale è un fattore fondamentale, per ciascuno di noi l’effetto, la durata e l’emivita cambiano. Per essere precisi e non sbagliare ci vuole qualcuno che monitori il farmaco su di te, che lo te­sti sul tuo corpo, com’è la curva di smaltimento, per quanto tempo risulti positivo. Quando mi sono fatto l’EPO si diceva che erano 4-5 ore. Sì, ma sono 4 o sono 5? O sono 4 e 45?
Per saperlo devi testarlo. Prima di arrivare a capire il dosag­gio oppure l’emivita di un medicinale ci sono state genera­zioni di ciclisti che si sono bruciate.
Quando all’inizio di una tappa vedi il cartello 250 chilo­metri e sai che domani devi correre la stessa distanza e an­che il giorno dopo e il giorno dopo ancora, tutto quello che puoi ingerire lo ingerisci. Nessuno ha idea di che cosa signi­fichi fare una tappa di 200 chilometri con vento, a 30 gradi,3 o 4 salite a blocco, cioè a tutta forza, e altrettante discese.
È un’esperienza che non assomiglia a nessun’altra. È necessa­ria una condizione fisica e mentale formidabile. La sostanza serve anche per questo.
E poi c’è la competizione. Uno corre in bici perché vuol vincere, altrimenti si fa una sgambatina e non ha bisogno di mettersi il numero sulla schiena. I ciclisti sono profondamente agonisti, molto più degli altri sportivi. Tutti gli sportivi si con­frontano con la vittoria, nessuno in modo così estremo come il ciclista. Il ciclista lotta contro se stesso e contro la natura, colli, salite, montagne, curve. Prova a stare a 180 battiti al minuto e dover fare ancora 20 chilometri, non puoi non es­sere agonista per passare questi scogli.
Non siamo eroi, siamo dei pazzi scatenati, dei coglioni. Gente che sta in dialisi, che si è bruciata le palle, che è morta per ispessimento della parete cardiaca. Per un ciclista l’im­portante è vincere, non pensi mai che ti ritiri, che ti possono beccare, che ti puoi ammalare, che puoi farti male.
Esiste solo la vittoria.
Vinci e soddisfi il tuo ego, lo status, la carriera.

Si crea intorno a te un’aura da persona sovrumana, ti alleni ; ti fai vinci, sei più forte di tutto, vai oltre il limite. Nessuno ti dice che stai vivendo in un mondo parallelo, che non è la realtà, perché hanno bisogno che tu dia il massimo in quello che stai facendo, la squadra e gli sponsor hanno bisogno del campione, anche i compagni hanno bisogno del campione, il campione crea intorno a sé un indotto che dà da mangiare a un sacco di famiglie. Così quando scendi dalla bici, se sei così fortunato da scenderci integro di corpo e di testa, sei un alie­nato che impiega almeno cinque anni a riprendere contatto con una vita normale. (pp.81-84)

10 p.87

È capacità e anche incoscienza, perché a volte succede che stai andando giù e quello davanti a te – bum! – salta. Non ti fermi continui ad andare, hai visto che uno è caduto e non ci pensi neanche, vai via dritto. Chi ci pensa e frena, perde il Giro, chi ha paura e va fuori strada, perde il Giro. Invece chi non pensa a niente va giù, 90-100 all’ora va giù, 110 va giù, bagnato non bagnato va giù. Perché? E allenamento, fi­ducia nei tuoi mezzi, abilità individuale, un modo tecnico di essere tutt’uno con la bici e con l’asfalto, un occhio capace di calcolare tutto in tempo reale. E istinto. Ciò che fa di un ciclista un campione è l’istinto alla vittoria. Un campione è un cannibale con un istinto innato alla vittoria. (p.88)

Al rientro Cipollini prende la parola: «Ragazzi, oggi ormai la tappa è andata e l’abbiamo fatta annullare, ma domani è meglio se ripartiamo». Un brusio si diffonde in sala, Cipollini sta ribaltando la situazione, forse ha parlato col suo procu­ratore, forse con i direttori sportivi della squadra, forse con gli organizzatori del Giro. E ha cambiato idea.
Vedo la rabbia accendersi sul viso di Pantani. Marco è un introverso, un uomo di poche parole e la batosta di Madonna di Campiglio del ’99 l’ha portato a chiudersi ancora di più. Tutto quel fango mediatico per un ematocrito superiore al limite di due punti, un valore che avrebbe potuto essere al­terato da altri fattori, oltre alle sostanze dopanti. Prima che sulla vicenda si potesse fare chiarezza, tutti erano pronti a giurare sulla sua positività, ma avere un ematocrito alto non significa essere positivo. Eppure l’occasione di sparare sul campione era troppo ghiotta e lui era un mito all’apice della sua parabola sportiva.
Ricordo lo stupore quando, diversi anni dopo, andai alla procura di Brescia, la stessa che l’aveva fermato a Campiglio, e dietro le spalle del segretario vidi una gigantografia di Pan­tani con gli occhi sbarrati, braccato dalla folla e tenuto per le braccia da due carabinieri. Per loro un momento di gloria, per lui la disperazione. Al Giro del 2001 si porta il peso di queste vicende, il blitz negli alberghi è uno schiaffo inaccet­tabile, la conferma di una persecuzione nei suoi confronti e verso lo sport che ama.

Quando si accorge che Cipollini sta per cambiare rotta e vuole convincere tutto il gruppo s’incazza come una bestia: «Tu sei matto, dobbiamo andare tutti a casa!». Grida fuori controllo. Non vuole piegare la testa, non può accettare un altro abuso. Sono d’accordo con lui, Pantani è un’ispirazione, la genialità pura sui pedali. Provo il rispetto e l’ammirazione che si sentono di fronte a qualcuno che ha un dono, un ta­lento speciale e se ne assume la responsabilità totale.
Ma è tardi, il fronte è già spaccato in due. Simoni prende la parola e si schiera dalla parte di Cipollini. Pantani lo guarda, l’amarezza prende il posto della rabbia, gli si avvicina e gli afferra un braccio: «Gibo, non pensare che stai per vincere il Giro, pensa al ciclismo. Al Tour del ’98 ero in maglia gialla e per il caso Festina ci siamo fermati in mezzo alla strada. Sono stato il primo a togliermi il numero».

Simoni evita di guardarlo e si libera dalla stretta: «Marco, per te è diverso, tu un Giro e un Tour li hai già vinti. Que­sta è la mia occasione».

Non so dove trovo il coraggio, nel silenzio del momento prendo la parola: «Abbiamo perso una grande opportunità al Tour del ’98, non facciamolo di nuovo. Forse questa è l’ul­tima volta in cui possiamo dimostrare che facciamo sul serio».

Pantani e Figueras sono con me, Cipollini cerca di por­tare tutto il gruppo dalla sua. E ce la fa, ci impiega un’ora intera ma ce la fa. Il giorno seguente si corre. Pantani, finita la riunione, fa i bagagli e toma a casa. La mattina dopo tutti montiamo in sella. Mi ritiro alla diciottesima tappa per una tendinite. Simoni vince il Giro. (pp.91-92)

Vince Freire, secondo arriva Bettini.

All’arrivo Simoni è furibondo, affronta Lanfranchi che prova a difendersi: «Non ho visto che davanti c’eri tu».

Simoni lo incenerisce con uno sguardo, se al suo posto ci fosse Cipollini lo massacrerebbe di botte. Perdiamo il Mon­diale con Simoni che stava per vincere, un mistero tutto ita­liano.

Alla fine capisco i giochi. Dentro la Nazionale ci sono le squadre e la squadra più forte è la Mapei, basta guardare l’ordine d’arrivo: Freire è della Mapei, Bettini è della Ma­pei, anche Lanfranchi è della Mapei. La federazione italiana avrebbe potuto chiedere spiegazioni, il comportamento era sanzionabile, la Nazionale poteva anche essere commissariata. Abbiamo fatto una figuraccia di fronte al mondo.

Nessuno ha fatto o detto niente. (p.94)

11 p.95

Giorgio Squinzi, proprietario della Mapei, ha detto che ha la­sciato il ciclismo per troppo doping, diceva che la sua squadra era la più pulita. Squinzi con il ciclismo ha lanciato al mas­simo il marchio della sua azienda, poi ha venduto la squadra e ha comprato il Sassuolo Calcio.
Il calcio e il ciclismo sono entrambi sport professionistici ma muovono contesti economici molto diversi. Nel ciclismo mondiale ci sono 17 squadre WorldTour, sono le più forti, le più ricche e hanno diritto di partecipare a tutte le gare al mondo, senza dover essere invitate dagli organizzatori. Sono come la Serie A del campionato di calcio. Tutte le 17 squa­dre WorldTour costano la metà del Reai Madrid. La popo­larità però non è diversa, una tappa del Giro può muovere 200.000 persone, più o meno tre volte lo stadio di San Siro. Un potenziale enorme.
Quando la Mapei entra nel ciclismo, in due anni arriva quasi a triplicare il proprio fatturato, il rapporto tra investi­mento e visibilità è esplosivo. Prima i prodotti Mapei erano conosciuti solo dagli addetti ai lavori, poi la gente che entrava nei colorifici e nei ferramenta voleva solo Mapei. Viene fon­dato il centro medico Mapei dove il dottor Sassi gestisce la parte sportiva. Si fanno programmi di allenamento per tutti gli atleti, non solo per la squadra. (p.95)

Il centro ac­creditato a livello internazionale per le analisi antidoping, il laboratorio dell’Acqua Acetosa, è di proprietà del CONI, come

il Centro di preparazione olimpica, la Scuola dello sport e l’istituto di medicina e scienza dello sport. È una struttura enorme, in cui sono convogliate moltissime risorse statali. In più le federazioni dei singoli sport si rivolgono all’Acqua Acetosa per i controlli. Per esempio, in vista di competizioni internazionali o mondiali, selezionano una rosa di atleti da inserire in un protocollo. Le federazioni pagano per questo servizio, un ulteriore consistente introito.

Il CONI ora ha campo libero nella preparazione e nel con­trollo degli atleti, ma non è sempre stato così, ci sono stati anni in cui ha avuto dei concorrenti.

Dopo il 1984, quando Moser in Messico spiazzò tutti bat­tendo il record dell’ora all’età di 34 anni, cominciarono a circolare i nomi di Conconi e Ferrari che lo avevano prepa­rato. All’improvviso l’Acqua Acetosa si accorse che c’era uno sport con una potenzialità economica enorme sconosciuta a tutti. Quando Ferrari andò per la prima volta in una società ciclistica, si rese conto che il DS non sapeva nemmeno cosa fosse l’acido lattico e cominciò a mettere le basi della sua for­tuna. Fino a poco tempo fa Ferrari prendeva una percentuale dell’ingaggio dell’atleta che aveva in cura, proprio come un procuratore. È un uomo ricchissimo.

Conconi nel frattempo aveva aperto un centro di medicina sportiva a Ferrara e molti atleti si rivolgevano a lui.

Anche l’Acqua Acetosa cominciava ad avere i suoi tec­nici, i macchinari e una cultura che si stava rafforzando, re­clutando laureati in scienze motorie alla Scuola dello sport. Sul territorio c’erano circa 5.000 atleti che andavano istru­iti, incanalati, andavano fatti dei test per esempio. E quanto costavano i test? 300.000 lire. Quanti erano gli atleti? Il cal­colo è presto fatto.

Negli anni ’90 l’Acqua Acetosa non può rischiare di avere concorrenti sul campo e comincia una lotta asprissima con­tro tutti i medici sportivi che si propongono agli atleti e in­sieme a loro conquistano successi. Due di loro sono France­sco Conconi e Carlo Santuccione. La guerra è combattuta sul terreno del doping con procedimenti giudiziari e squa­lifiche. L’assunto è semplice: se un atleta vince e non lo fa appoggiandosi al CONI ma a una struttura o a un medico di­versi allora si dopa.

Il CONI vuole fagocitare al suo interno tutti gli sportivi sparsi sul territorio nazionale, vuole allenarli, prepararli, pren­dersi cura di loro per godere degli onori, delle gratificazioni e del prestigio delle loro vittorie. Peccato che al suo interno ci sia anche il laboratorio dell’Acqua Acetosa, l’ente che con­trolla gli atleti che puntano a vincere. Il soggetto che con­trolla l’atleta è lo stesso che trae beneficio dalle sue vittorie.

E un conflitto d’interesse enorme, un cortocircuito as­surdo. Il CONI in questo modo ha il potere di cancellare un atleta e innalzarne un altro, per colpire chi lo prepara e lo assiste.

Carlo conosce benissimo il copione e tutti gli attori sul palco. Dopo i primi tre anni da professionista mi dice: «Devi andare alla Mapei, parla col tuo procuratore e digli che devi andare alla Mapei». È la squadra più potente, molti corridori sono protetti, i loro medici non sono chiacchierati come lui. Ha capito che il nostro legame è una spada sopra la mia te­sta, ha paura che per arrivare a lui facciano a pezzi me. (pp.96-97)

Nel ’95 Carlo è chiamato a Roma dal CONI come persona informata sui fatti all’interno di un’inchiesta per doping. Non si presenta, dice di non aver commesso nulla e di non doversi difendere o testimoniare su niente. Firma la sua condanna. Per essersi rifiutato di comparire gli danno cinque anni di squalifica, dal ’95 al 2000. Comincia la grande guerra a San- tuccione. Sono legato a lui a doppio filo, sono un suo uomo, il suo figlioccio. Divento un bersaglio dentro un gioco che non riesco a vedere, capire e tantomeno controllare. (p.98)

12 p.101

Nel 2002 voglio andare alla Mapei. È la squadra dei cam­pioni, la più potente delle italiane. Sono convinto che se mi prendessero potrei decollare davvero. Dico al mio procura­tore Johnny Carera di provare a muoversi in tutti i modi.[…]

Johnny fa tutte le mosse del caso ma non c’è verso, non mi prendono.
Vado alla Saeco, lo squadrone di Cipollini, e Cipollini va nella mia squadra, la Cantina Tollo-Acqua e Sapone. Ci scambiamo la maglia. Con Martinelli, DS della Saeco, deci­diamo di spostare gli obiettivi: abbandono il Giro e punto alle classiche.(p.101)

Più sei vicino alla condizione, più assomigli a un vecchio stanco. Il volto segnato, le bracia secche, la pelle così fine da sembrare trasparente.
Sei in forma e puoi vincere quando attraverso la pelle riesci a vedere tutto il sistema di muscoli, nervi, tendini. (pp.103-104)

13 p.111

14 p.116

La preparazione per la stagione inizia a novembre, quando si comincia a fare il calendario degli obiettivi. Ci pensi con i DS, lo staff, il preparatore. Sono sempre stato abbastanza li­bero, ho scelto quali gare fare e come awicinarmici.
Il preparatore è fondamentale, studia una programma­zione per farti arrivare al massimo della condizione all’ap­puntamento che ti sei prefissato, classiche o Giro che sia. Di solito è personale, c’è anche quello della squadra, però quasi tutti i corridori hanno il loro che si scelgono e si pa­gano da soli.
Con la palestra si comincia a novembre e si arriva fino a Natale o inizio gennaio. Si fanno esercizi sia per le gambe sia per la parte superiore del corpo, per risvegliare i muscoli che non usiamo quando andiamo in bici e rafforzare quelli che ci serviranno, per esempio i lombari. Poi ci sono lavori speci­fici: potenziamento, forza resistente, forza esplosiva, agilità. L’obiettivo è sempre quello di non sviluppare troppa massa muscolare per non sbilanciare il rapporto peso-potenza.
D’inverno è bene mettere addosso qualche chilo, il Mago diceva sempre: «D’inverno vi dovete ingrassare». Il grasso che si prende d’inverno è una riserva e aiuta a recuperare gli sforzi di tutto l’anno. In bici spingi al massimo, sempre, con qualche chilo in più hai difese immunitarie più alte e ti pro­teggi da influenze, raffreddori, virus.Una caratteristica che mi distingue dagli altri corridori è che riesco ad andare ad alte frequenze, cioè tenere 90-95 pedalate al minuto in salita, dove tanti non riescono o fanno molta fatica. Una frequenza di pedalata maggiore stressa meno i muscoli perché sposta il carico di lavoro dal fisico (le fibre muscolari) al sistema cardiovascolare. A me viene na­turale, così come succedeva ad Armstrong.
È un grosso vantaggio, soprattutto nelle gare di tanti giorni: il muscolo si affatica meno, s’intossica meno rispetto a spingere i rapportoni e andare duro. La gamba resta più fresca, pronta. Certo, hai più fiatone ma il fiato te lo fai con l’allenamento. (pp.116-117)

15 p.126

Sono un animale.
Quando l’animale ha fame deve andare a caccia e non sta a guardare i pericoli, ha negli occhi la gazzella e pensa: “Quella me la devo mangiare sennò muoio”. Per me è così, sono un animale da corsa, sento l’appuntamento, vedo che c’è possibilità di fare risultato e lì sono imbattibile. Questa attitudine ha un risvolto nascosto. Vinci e prendi coscienza delle tue possibilità però i giorni non sono uguali, non puoi garantire a ogni gara la prestazione della volta precedente.
Ecco che qui entra in gioco l’ambiente. Nel rischio che tu possa non raggiungere lo stesso risultato, il sistema comin­cia a fare pressione e tu ti chiedi: “C’è qualche cosa che mi mette nelle condizioni di poter fare anche oggi quello che ho fatto ieri quando in salita ho staccato il gruppo e ho dato a tutti un minuto?”.
Entri in un grande vortice, il vortice delle sostanze. L’of­ferta è vastissima e in continua evoluzione, a voler cercare c’è di tutto. C’è la sezione ormoni, di cui facciamo un uso grande e differenziato. Primo fra tutti il testosterone, garan­tisce un maggior flusso ematico ai muscoli, ripara le micro­lesioni, genera una sensazione di benessere, un’euforia non comune. Una volta si usava il Testovis da 25 e da 65, che dal punto di vista sessuale ti faceva stare sempre sull’attenti. Op­pure l’Andriol in capsule, qualcuno le chiamava le “zigulì”. I corridori sperimentano anche sulle modalità di assunzione, qualcuno ha provato a mettere il testosterone sotto la lingua invece di iniettarlo, pare faccia andare fortissimo. In dosi massicce, il testosterone dà problemi al cuore.
Poi c’è il GH, l’ormone della crescita, ti dà più forza e tra­sforma la massa grassa in massa magra, ti fa dimagrire. Fer­rari è contro il GH, secondo lui fa aumentare i liquidi e dà ritenzione, ti rallenta non serve a nulla. Il GH te lo fai diret­tamente nel muscolo, lì dove ti serve, gambe braccia petto­rali, sono aghi piccoli, non si sente niente. A volte ti può in­golfare, è molto importante verificare se il tuo corpo già ne produce molto perché altrimenti non ti dà nessun effetto be­nefico. La controindicazione più pericolosa è che irrobusti­sce le pareti del cuore, gli toglie elasticità e lo affatica.
L’IGF-1 è un ormone con una struttura simile all’insulina, potenzia l’effetto del GH. Se il suo valore nel corpo è troppo elevato aumenta il rischio di cancro, soprattutto alla prostata.
Il DHEA, la pillola della giovinezza, un ormone steroideo molto potente, è il re degli steroidi. Anche lui è correlato all’incremento di rischio di tumore. Di steroidi anaboliz- zanti non siamo grandi consumatori perché gonfiano il mu­scolo e rischiano di fare troppa massa, di renderci più lenti. Degli anabolizzanti ho letto il bugiardino e mi sono spaven­tato, non li ho presi, gli effetti collaterali sono sterilità, dia­bete precoce, infarto.
I corticosteroidi ti danno resistenza ma hanno controin­dicazioni tremende. Tra questi c’era un farmaco vecchio, il Synacthen, funzionava in giornata, te lo facevi la sera e la mattina andavi forte, era potentissimo.
Poi c’è tutta l’offerta di amfetamine, da usare per reg­gere forti carichi di lavoro. Le prendi e fai tutto quello che devi fare, torni a casa e non sei finito, mangi, fai le tue cose, schiacci un pisolino e la sera sei perfetto, già nuovo. Per molti ciclisti il peso è un problema, per dimagrire prendono la co­caina, poi per riposare e recuperare bene prendono sonniferi e poi la mattina amfetamine per fare 6-7-8 ore di fondo. In due settimane calano anche di dieci chili. A molti le am­fetamine danno fastidio perché alzano i battiti cardiaci. Ho visto usare un cerotto trasparente che, messo sotto il cuore, abbassa la frequenza cardiaca di dieci battiti. Per alcune spe­cialità ci sono sostanze specifiche, i velocisti prendono la ni­troglicerina in pastiglie per fare delle sfiammate supersoni­che negli ultimi tre chilometri di gara. La tengono in tasca e la sciolgono sotto la lingua prima della volata. Tornano nuovi, è come se ricominciassero la corsa. Gli effetti collate­rali sono pericolosissimi, la pressione del sangue si alza così tanto che se cadi o ti laceri, il sangue schizza fuori in modo violento, come il getto di un idrante. Io non l’ho mai presa.
Più ci tieni a preservarti nel fisico e nella mente più sei at­tento e oculato con i farmaci. Su 200 corridori professionisti, solo 10-15 emergono, gli altri lottano con tutte le armi a di­sposizione per restare in gruppo. Ho saputo di gente che si è presa roba per uso veterinario come lo Stargate, ex Winstrol, uno steroide anabolizzante cinque volte più potente di altri farmaci, con delle conseguenze devastanti sul fegato. I far­maci per animali costano meno e funzionano molto nell’im­mediato, poi a quello che succede dopo molti non pensano, basta andar forte.
Il cortisone serve a darti forza e lucidità, i rischi maggiori sono glaucoma precoce, porosità ossea, abbassamento dell’autostima, rabbia, depressione facile. E poi c’è Pepo, la regina per noi ciclisti. Aumenta i glo­buli rossi, ossigena il sangue e hai un alleato che ti fa an­dare oltre soglie che non avresti mai pensato. I rischi sono ipertensione precoce, problemi a reni e fegato. Di EPO ce ne sono sempre di nuove, l’ultima è l’FG-4592 in polvere, che stimola la produzione di globuli rossi a livello genetico, in modo endogeno a differenza dell’EPO tradizionale che lo fa in modo esogeno. Anche l’EPO ti dà un senso di benessere e leggera euforia. A volte al posto dell’EPO si usa l’insulina.
Mentre l’EPO alza l’ematocrito lentamente e si deve comin­ciare la cura molto prima dell’appuntamento, con l’insulina l’effetto è immediato. Si fa la sera o la mattina prima della gara e dà una resistenza mostruosa, è come avere un serba­toio di riserva. Con l’insulina bisogna dosarsi, chi esagera ri­schia di diventare dipendente. Le sostanze ti rendono lucido, presente, reattivo, pieno di energia, su di giri. Quando smetti all’improvviso, può ca­pitale che il corpo e la mente ricerchino le sensazioni per­dute, che rifiutino lo stato della normalità, e si sperimentino degli stati depressivi. E qui può rientrare in gioco la farma­cia, questa volta non più per andare forte, ma per far fronte alla vita quotidiana. Se non sei un uomo fermo nelle tue posizioni e non sai dosarti – oggi faccio questo e domani no – è un problema. Ci sono diversi modi di relazionarsi con il doping, si può dire: “Mi interessa questa corsa, mi impegno e faccio qual­cosa. Per le altre settanta corse vado del mio” oppure si può cadere nel tranello: “Senza niente non arrivo nemmeno alla fine” e allora ti fai sempre e il fisico paga, entri in zone a ri­schio per la salute.
Niente fa bene, tutto deve essere preso dietro stretto con­trollo medico, non si deve mai pensare che una pastiglia fa bene, due fanno meglio e tre ancora meglio, perché altrimenti ti intossichi. Quando guadagni un milione a stagione devi avere il biochimico, l’endocrinologo, il biologo, devi spen­dere 100.000 euro l’anno per curarti, perché ci sono delle cose che fatte a regola d’arte non ti danneggiano più di tanto. Se invece fai da solo, fai cazzate. Una volta sono andato da Carlo con una fiala che mi ero procurato, quando l’ha vista me l’ha sequestrata e l’ha but­tata via: «Non ti azzardare a prendere questa roba. E non provare a ricomprarla, questa t’ammazza». Era perfluorocar- buro, sangue sintetico che aumenta la capacità di trasportare ossigeno. Era un farmaco non testato, ti faceva andare forte però potevi rimetterci le penne. Molti colleghi sapevano che era pericoloso e se lo facevano lo stesso. Il ciclista pensa che se 15 gocce fanno bene 30 fanno il dop­pio. In gara è abituato a concedersi tutto, a darsi compieta- mente, come uomo e come atleta, perché è questo sport che lo chiede, non c’è nessun altro modo di interpretarlo, di vi­verlo. E con il doping molti si relazionano nello stesso modo, fino in fondo, alla morte. Il lavoro e l’allenamento restano prioritari perché se tutti siamo nel vortice delle sostanze ma non lavoriamo con la stessa intensità con la stessa professio­nalità con la stessa determinazione, la prestazione è diversa. Cambia in base a quanto e come hai lavorato, a come ti fun­ziona la testa, a come ti funziona il cuore. Parlare di doping non è semplice. Quando ti finisce l’ener­gia psichica, ci vuole coraggio anche a doparsi, perché stai mettendo nel tuo corpo delle cose che non sai se tra dieci anni ti viene il cancro, non sai se domattina mentre fai una salita di 15 chilometri a una pendenza media dell’8% a 180 battiti il cuore ti scoppia. C’è una grandissima dose di in­coscienza, di cattiveria e di egoismo. Di incoscienza perché sai che puoi morire ma non te ne frega un cazzo, di cattive­ria perché non consideri nessuno intorno a te, di egoismo perché pensi soltanto a te stesso, se esci vivo dalla tappa hai vinto e non ti importano le conseguenze. Non stai a pensare: “Cazzo, mi faccio di amfetamine e magari tra cinque anni sono assuefatto e divento un tossico”. Ci sono state decine di ciclisti che si sono svegliati una mattina e si sono trovati dipendenti dalle sostanze. Te ne freghi, fai quello che devi perché il tuo imperativo è vincere. Non esiste un atleta determinato alla vittoria come il ciclista. È impensabile partire la mattina e fare 250 chilome­tri con 5.000 metri di dislivello, è come andare cinque volte da Bassano del Grappa ad Asiago in una giornata, su e giù cinque volte. Una persona normale dice: sei matto. E non è solo allenamento, è la testa. Tutto diventa relativo perché hai una mente strutturata ad andare oltre il limite. Mica hai paura del vento, mica hai paura della grandine, mica hai paura della neve, si parte, si corre. La soddisfazione è girarsi e guardare quelli che hai staccato, tu stai davanti e sorridi, loro stanno dietro e soffrono. Per un ciclista è il massimo. Al Giro d’Italia si comincia a correre ai primi di maggio e si va avanti per tre settimane, e da novembre si sono fatte già 40 gare, di cui almeno 4 a tappe, 15.000 chilometri ma­cinati per arrivare al Giro in condizione. C’è chi ne ha fatti 12.000 per entrare in condizione l’ultima settimana. Quando vivi così non hai paura di doparti, non hai paura neanche della morte, perché ogni giorno che ti fai rischi, e se non in quel momento, sai che in dieci anni puoi trovarti dializzato o tossico o morto.

 

Alla determinazione folle del ciclista c’è da aggiungere la pressione dell’ambiente, le sollecitazioni dentro cui rischia di restare stritolato. Nel girone infernale quello che fa la dif­ferenza tra le persone è l’equilibrio, la capacità di mante­nere un sottilissimo filo di distacco che può salvare una vita. (pp.126-131)

16 p.132

I primi sportivi ad aver accettato l’ADAMS sono i ciclisti. Mi sono sempre domandato se fosse umano obbligare qualcuno a comunicare dove si trova 24 ore su 24, dove dorme dove si allena dove gareggia, così da essere reperibile sempre per i controlli a sorpresa. Dal 2007 i ciclisti vivono così, rintraccia­bili in ogni momento della loro vita, anche quando non cor­rono e sono in vacanza. I calciatori si sono rifiutati, l’hanno definito una persecuzione intollerabile. A me piaceva andare in bici, quello che mi ha tolto il gu­sto è stata la sensazione di essere sorvegliato in continua­zione. Viviamo braccati come delinquenti, una caccia al la­dro. In più, quando veniamo controllati non abbiamo nessun tipo di tutela.
L’UCI si presenta al Giro, prende il sangue a Pantani, dice che l’ematocrito è 51,9 e Pantani va a casa, così su due piedi, senza nessun controllo incrociato, senza nessuna possibilità di replica.
E noi stiamo zitti, accettiamo tutto.
La notte tra il 24 e il 25 maggio 2004 sono a letto con Va­lentina, stiamo dormendo. Alle 5.30 il campanello squarcia il silenzio, mi sembra che il suono sia dentro il sogno che sto facendo, poi Valentina mi tocca un braccio: «Dani’, od­dio hai sentito?». (p.132)

Aprono i cassetti, gli armadi, frugano, svuotano, ribaltano, mettono a soqquadro tutta la camera. Sentiamo dei rumori provenire da fuori, stanno riservando lo stesso trattamento al resto della casa: cucina, bagno, soggiorno, ripostiglio, non trascurano nessun anfratto. (p.133)

Quando se ne vanno la casa è sventrata, non c’è nessun an­golo che non sia stato toccato dalle loro dita. (p.134)

Carlo è uno degli imputati nell’inchiesta Oil for Drugs, una delle più grandi operazioni antidoping mai fatte in Ita­lia. Alle 4.30 del mattino dieci carabinieri si presentano da lui, cinque appostati fuori, cinque dentro. Nel buio della casa perquisiscono tutto, svegliano i suoi tre figli, entrano nelle loro camere.
Lo arrestano.
Mentre lo fotografano e gli prendono le impronte digitali, chiede: «Ma che è? Ci sta Totò Riina qui dentro?».
«Non faccia lo spiritoso».
Nessuno può permettersi di scherzare con i reati che gli vengono contestati: associazione a delinquere, commercio e assunzione illegale di sostanze dopanti, contrabbando di spe­cialità medicinali e distribuzione illegale di sangue umano. Sconta tre settimane di domiciliari e tre mesi d’interdizione dalla professione medica.
La faccenda è seria: 150 perquisizioni nella stessa notte in tutta Italia, passate in rassegna le stanze di 8 corridori che stanno facendo il Giro, tra loro Spezialetti Mazzoleni Mar- zoli Scirea Masciarelli, nessuna sostanza trovata; 138 inda­gati tra ciclisti, atleti, farmacisti, medici sportivi. Anni di controlli, centinaia di intercettazioni, appostamenti, teleca­mere nascoste.
C’è un filmato che sta al centro delle tesi degli inquirenti e che secondo loro inchioda me e Carlo. Il procuratore ha messo agli atti del processo la trascrizione di una ripresa della telecamera nascosta nel suo studio medico. Questo è quello che si vede nella ripresa.

Lunedì 13 marzo 2004 alle ore 16.32 minuti e 24 secondi la segretaria apre la porta dello studio, entra e dice: «Dottore, di là c’è Danilo».

Il dottore: «Va bene, digli di aspettare».

Si alza, va in bagno, torna in studio con una siringa, prende ma fiala di vetro dall’armadietto dei medicinali, aspira dalla fiala, poggia la siringa sul lettino. Fa altre due visite ed esce con la siringa in mano.

Quando rientra la siringa non c’è più.

Chi sta guardando le immagini in quel momento deduce arbitrariamente che quel Danilo è Di Luca e che il medico gli ha fatto una dose di EPO. Mancano cinque giorni alla Mi- lano-Sanremo e quindi si presuppone che faccia parte della preparazione farmacologica alla gara.
Peccato che quel giorno sto facendo la volata alla Tirreno- Adriatico dove mi piazzo ventisettesimo e non posso essere in due posti contemporaneamente. Peccato che le fiale di EPO, come il GH e come altri prodotti specifici, devono es­sere conservate in frigo altrimenti si alterano e non fanno ef­fetto. Peccato che non esiste in commercio nessuna fiala di EPO che sia in vetro.
Scrivo queste cose ora che tutto si è placato e che le mie considerazioni non sono frutto di un’opinione parziale e al­terata dall’amore per Carlo, sono fatti accertati dopo dieci anni di procedimento giudiziario.
Il 12 dicembre 2012 alle ore 10.12 Carlo è assolto con for­mula piena da un tribunale di Giustizia, non per prescrizione o altro, perché il fatto non sussiste. (pp.135-136)

La giustizia penale accerta le sue verità, mentre quella sportiva corre su un altro binario, Carlo è radiato dal CONI nel dicembre 2007.
Quando gli arriva la comunicazione, si fa una risata amara: «Non mi sono mai iscritto al CONI, come posso essere ra­diato?». […]

Quando vincevo era perché Santuccione mi dopava, le mie vittorie accrescevano il discredito su entrambi. Una spirale inarrestabile. Carlo ha pagato in maniera tosta[…] (p.137)

17 p.141

18 p.151

Il ciclismo è una questione di vita, non è uno sport. La mattina fai colazione, vai ad allenarti, 5-6 ore di fondo op­pure lavori specifici, torni a casa ti metti sul divano gambe all’aria e basta, la sera alle 10 e mezza sei a letto. Non c’è se­rata in discoteca, ristorante, weekend fuori. D’estate gareggi e il mare non esiste perché ti gonfia le gambe, ti fa vasodila­tazione. Lo stesso nelle tre settimane di vacanza a novembre, al mare è meglio non avvicinarsi neanche. E non puoi avere nessun tipo di preoccupazione perché ogni pensiero ti con­suma, ti porta via energie e risorse per l’allenamento. Se un giorno hai un problema e la tabella ti dice di fare 7 ore, ma­gari ne fai 5 e non va bene. Perciò chi ti sta intorno ti pro­tegge da tutto, fa in modo che la vita reale non ti sfiori nem­meno. Appena scendi dal letto c’è qualcuno che t’infila le pantofole. Vivi in una specie di navicella spaziale dove tutto quello che devi fare è andare forte in bici, ci pensi tutto il giorno, per te esiste solo quello.
Non ho mai avuto il carattere per “fare la vita”. Non sono mai stato costante, nell’alimentazione e nell’allenamento. Una mattina mi alzavo e facevo 8 ore, il giorno dopo stavo a letto fino alle undici. (p.153)

Quello che mi ha salvato dal mio carattere è stata la de­terminazione a vincere, una cosa feroce, una cosa che ho sin da bambino, un dono. Per il resto non si può dire che abbia mai brillato per serietà.[…]

In avvicinamento a una gara non si esce a cena, non sai mai che cosa ci sta nei piatti che ti servono. In verità non si dovrebbe uscire a cena neanche in allenamento perché l’a­limentazione veramente bilanciata e precisa te la puoi fare solo a casa. Vivo al ristorante, mi piace mangiare fuori, ve­dere gente, essere un habitué dei posti dove vado. A Pescara la vita è dolce, facile. (p.156)

Perdo il senso della misura.
Quando ti gira bene non pensi che dovresti essere mode­sto e umile. Ti gasi, senti che sei il re del mondo, che è tutto facile. Se prima volavo a un metro da terra e poi a due, ora mi sento dio. Sono intoccabile, niente di brutto mi può accadere.
La gente mi viene dietro, mi sta intorno per mangiare, l’ingenuità me li fa vedere come amici. Divento spigoloso, capriccioso, mi chiudo, anche con Valentina. Non c’è limite a quello che posso fare, fuori dalle gare faccio tutto quello che mi va nel momento in cui mi va. In più la timidezza non migliora, anzi si veste di sbruffonaggine. Mi sembra di non avere bisogno di nessuno, di essere onnipotente.
L’errore è stato pensare che sarebbe stato sempre così. (p.157)

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Tratto le persone che mi stanno accanto come oggetti, so9no il centro intorno a cui ruota tutto. Non vedo e non sento nulla a parte il fragore del mio successo.
In quegli anni ci vuole molto amore per riuscire a starmi vicino, e una sconfinata pazienza. (p.184)

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Mi sento come una freccia che centrerà il bersaglio. Mi sento intoccabile, onnipotente. (p.186)

Il 14 luglio 2007 il procuratore Torri mi convoca nella § sede della procura antidoping del CONI a Roma. Ricacciano fuori le carte di Oil for Drugs, le intercettazioni. Dicono che se Santuccione è un dopatore allora io sono un dopato perché lo frequento. Questa è la tesi. La giustizia sportiva i non funziona come la giustizia ordinaria, il Tribunale anti­doping ti giudica sulla presunzione del reato, non sul suo accertamento. Puoi essere sospeso o squalificato in base a un ragionevole dubbio, senza che ci sia certezza del fatto. (p.187)

Questa è la grande ignoranza dei ciclisti professionisti, godono delle disgrazie degli altri pensando che a loro non succederà mai. Invece accade a tutti, tutti ci siamo passati o ci passeremo, perché siamo il popolo più indifeso e stupido dello sport mondiale. Corri vent’anni per arrivare a un obiet­tivo come il Giro e dopo una settimana il CONI ritira fuori le carte di Oil for Drugs e poi, come se non bastasse, s’inven­tano la storia della “pipì degli angeli”.

Per anni mi sono domandato il motivo di un accanimento tale nei miei confronti. Forse è stata solo una miscela disgra­ziata: sono il primo terrone che vince il Giro, sono legato a doppio filo a Santuccione a cui il CONI ha dichiarato guerra aperta, sono un bersaglio facile. A qualcuno nell’ambiente federale non vado proprio giù e mi si mettono alle calca­gna. In più affossando me, possono far vedere che sono at­tivi nella lotta al doping e quindi fanno buon uso dei fondi stanziati dallo stato.
Mi vogliono rompere il culo e ce la fanno, mi bruciano tutti gli ingaggi. La CSC scompare e con la Liquigas i rap­porti si raffreddano, ritirano l’offerta di un milione e due e mi parcheggiano in sala d’attesa. Sono l’unico corridore al mondo che, dopo aver vinto un Giro d’Italia, resta senza in­gaggio fino ad agosto. (p.192)

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Inizio il 2009 in crescita e, stabilito il calendario delle gare, penso a come curarmi, che cosa fare, quando. Non ce più Carlo a vigilare su di me e mi devo arrangiare, m’informo, mi aggiorno sui nuovi farmaci, divento un piccolo maghetto. Trovo tutto in rete e nell’ambiente. Mi faccio anche le sac­che. Farsi le sacche significa togliersi il sangue e poi rimet­terselo quando se ne ha più bisogno.
Quando si fanno sforzi grandi e prolungati c’è un enorme dispendio energetico: il corpo cede, l’ematocrito scende, il testosterone si riduce. Più la corsa è lunga più è difficile te­nere il passo con chi si dopa, che gode di un netto vantaggio.
Testosterone ed EPO ti fanno recuperare, ti riequilibrano e ti permettono di spingere sempre allo stesso livello. A que­sto si aggiunge l’emotrasfusione, che fa al tuo corpo un’inie­zione aggiuntiva di globuli rossi. È sempre sangue tuo, solo ne aumenti la quantità in circolazione. Quando hai più glo­buli rossi il tuo corpo sposta il suo limite di resistenza, puoi costringerlo ad andare di più, in situazioni in cui altrimenti avresti esaurito la benzina. Le sacche forniscono un aumento immediato di 3 punti di ematocrito, che si traduce in un au­mento di potenza del 3%, dai 12 ai 16 watt in più.
E sono irrintracciabili.
Le sacche sono una vecchia conoscenza dello sport, negli anni ’80, quando l’EPO non esisteva ancora, erano una pra­tica diffusa nel ciclismo professionistico e non solo, anche nello sci di fondo e nella maratona. Ti togli il sangue in modo controllato, te lo rimetti quando ti serve e ti fa lo stesso ef­fetto delPEPO.
Negli anni ’90 quando è arrivata l’EPO è cambiato tutto. L’EPO era più semplice da gestire, più immediata e te ne po­tevi fare in grandi quantità. Le sacche sono cadute in disuso fino agli anni 2000, poi quando l’antidoping ha cominciato a marcarci stretto si è ricominciato. Anzi, si sono integrate le due cose: microdosi di EPO che non risultano ai controlli e poi anche la sacca.
Nel 2006 quando è scoppiato lo scandalo dell’Operación Puerto1 è venuto fuori che Eufemiano Fuentes, il medico spagnolo al centro delle indagini, potenziava le sacche. To­glieva il sangue agli atleti, lo conservava e lo arricchiva con EPO e GH. Quando te lo rimettevi era una superbenzina.
Tutta l’operazione ha una gestione complicata. Per prima cosa ti servono delle sacche apposite, sterilizzate e adatte a conservare il sangue, e le farmacie non te le vendono, solo gli ospedali le hanno. (pp.203-204)

Il metodo che tutti usiamo risolve il problema con una ro­tazione, togli sangue fresco e reimmetti quello conservato: per una sacca reimmessa ne tiri fuori due. Per esempio, dieci set­timane prima della corsa ti togli una sacca, poi sei settimane prima metti la sacca conservata e te ne togli due nuove, poi due settimane prima metti le due sacche conservate e ne togli due nuove così hai due sacche fresche disponibili per la gara.
Quando ti togli le sacche e contemporaneamente ti fai l’EPO, devi stare bene attento con i calcoli dei giorni, perché altrimenti incappi nella positività di ritorno, cioè risulti po­sitivo ai controlli non perché ti sei fatto l’EPO a stretto giro, ma perché ti sei rimesso una sacca che era positiva.
In gara non puoi portarti le sacche sul pullman della squa­dra o in albergo. In più, rimetterti il sangue non è un’ope­razione veloce come farti una microdose, hai bisogno di al­meno 50 minuti, il tempo necessario per trasfondere i 450 cc senza rischiare di stare male. Allora ci si organizza. Prima di partire ogni corridore sa esattamente dove dormirà il tal giorno o il talaltro. Quando è ancora a casa si mette d’ac­cordo con la solita persona di fiducia e si dà appuntamento, se le sacche sono due, in due giorni precisi della competi­zione in un certo luogo e a una data ora, di solito dopo cena prima di andare a dormire. Stabiliti gli appuntamenti non ci si sente più per telefono né in nessun altro modo, visto che i telefoni sono sempre sotto controllo. Quando si avvicina il giorno dell’appuntamento, la persona di fiducia noleggia un camper e si fa trovare all’ora e luogo stabiliti, mettiamo il parcheggio dietro l’albergo dove la squadra passa la notte, con tutto il necessario. L’atleta dopo cena esce dall’albergo, sale in camper e si rimette il sangue, è tranquillo e può fare tutto nei tempi necessari. (pp.205-206)

Nel 2009 l’antidoping mi sta addosso. Ho bisogno di ri­scatto, niente ha senso se non vinco. Decido di puntare al Giro d’Italia.
Ne parlo con Sandro.
«Dani’ ma sei sicuro che vuoi fare il Giro?»
«Sì, sono sicuro.»
«Che cazzo te ne frega, già ne hai vinto uno.»
«No, devo fare il Giro.»
«Ma sei sicuro sicuro? Guarda che non ce n’è bisogno.»
So che vuole dirmi qualcosa che non può dire. Quando sei abituato a essere intercettato, capisci al volo che dietro una frase ce ne sta un’altra. Il messaggio di Sandro è che qual­cuno mi aspetta per farmi il culo, forse al CONI. Quasi sicu­ramente al CONI..
Non lo ascolto, voglio impormi di nuovo come un prota­gonista e mi alleno duro, non tralascio niente, mi curo con il CERA, un’EPO di nuova generazione che sfugge ai controlli e ti fa andare come un missile. Naturalmente sto bene attento a non rischiare, a fare tutto lontano dalle gare e soprattutto dal Giro dove sei controllato ogni giorno. Mi faccio anche le sacche, ne preparo due. (pp.206-207)

25 p.211

26 p.218

Il 22 luglio l’uci dichiara la mia positività al CERA nei con­trolli del 21 e del 28 maggio al Giro del 2009, il 22 luglio chiamano Valentina, il 23 mattina i NAS vanno a perquisire casa di Carlo, il 24 mattina vengono a perquisire casa mia. Quando se ne vanno, Valentina e io ci mettiamo in auto per andare a Padova. Arriviamo la sera, ad aspettarci oltre a Sandro ci sono Johnny Carera ed Ernesto De Toni, l’avvo­cato che dovrebbe occuparsi della cosa. (p.218)

Scopro che ci hanno impiegato tanto a dichiarare la posi­tività perché a Roma, all’Acqua Acetosa, hanno trovato qual­cosa di strano nel mio campione ma non sono riusciti a capire cosa e lo hanno mandato in Francia a Chàtenay-Malabry, un centro all’avanguardia, l’unico al mondo in grado di trovare il CERA. Il CERA è un’EPO di terza generazione, più compli­cata da rintracciare, ha un’altra molecola rispetto all’EPO tra­dizionale. La sua emivita è molto più lunga, quindi l’effetto è a rilascio lento, ma ha anche dei tempi di smaltimento dif­ferenti. All’epoca era nuova, e potentissima. Non mi sembra di aver preso dei rischi, ho fatto tutti i conti di tempi e dosi, non ho fatto il kamikaze.
Secondo i miei calcoli non avrebbero dovuto trovare niente, non capisco. Devo aver sbagliato per forza qualcosa, questione di qualche giorno.
Non sono più sicuro di niente.
Tutti i miei dubbi si sciolgono quando Ernesto mi porta da uno dei migliori periti in circolazione, uno scienziato, Santo Davide Ferrara. Viene fuori che sono risultato positivo a un tracciante che era dentro il farmaco, non al farmaco. A volte le case farmaceutiche mettono dei traccianti, in modo del tutto casuale e randomizzato. Nessuno può sapere che partita di prodotto ti capita, è una roulette russa. Il tracciante del CERA che mi sono fatto risultava nei controlli ben oltre 30 giorni. Se non mi fossi rimesso la sacca sarebbe andato tutto liscio.
Dopo avermi fatto sentire l’uomo più sfigato sul pianeta, Ferrara mi apre un piccolo spiraglio di salvezza, il metodo con cui hanno trovato il tracciante è ancora in corso di spe­rimentazione, senza validazione scientifica necessaria, e non può essere considerato decisivo nell’accertamento della po­sitività. Con Ernesto prepariamo una difesa nel merito, forti della perizia di Ferrara e della contestabilità del metodo. (pp.219-220)

Dopo mezz’ora ci richiamano dentro per la sentenza: mi danno due anni di squalifica, mi tolgono due tappe e il se­condo posto al Giro. Sono stato bravo ma è servito a poco, Ernesto è incazzato nero.
Come se non bastasse, l’UCI ha appena stabilito una regola per cui quando risulti positivo devi pagare una multa pari al 70% dell’ultimo stipendio lordo, nel mio caso 280.000 euro. Se non paghi ti fanno un decreto ingiuntivo e si rifanno sui beni intestati. Se non hai beni non ti tesserano e non puoi più correre, nemmeno a fine squalifica.
L’unico bene che ho è la casa.
Non pago la multa e parte il decreto ingiuntivo. (p.221)

Con Ernesto decidiamo di non fare ricorso. La strate­gia iniziale era: prima andiamo dalla giustizia sportiva e ve­diamo come valuta la nostra difesa scientifica nel merito, se ci va male ci rivolgiamo alla giustizia penale per ridurre la condanna sportiva con una collaborazione. In sede sportiva è valida la collaborazione, puoi ridurre fino a due terzi la tua squalifica se permetti l’accertamento di nuovi casi di viola­zione della norma. In pratica devi fare i nomi di soggetti an­cora puliti, delazione pura. (p.222)

Una sola certezza mi è rimasta, ho sbagliato, pago ma non baratto nessuno per uno sconto di pena. Un conto è tacere l’uso di sostanze, accettare la menzogna diffusa, partecipare a una recita collettiva, diverso è tirarsi fuori dal gioco e pun­tare il dito e mandare in rovina la vita di qualcun altro.
Ernesto capisce: «Gli diciamo come si fa, rispondiamo alle sue domande e gli diamo i riscontri necessari per continuare le indagini. Vediamo se questo osso gli basta».
Valentina non è d’accordo, la mossa non le piace: «Così tutti nell’ambiente penseranno che hai parlato, che hai fatto i nomi, anche se non li fai. Diventerai l’appestato».
So che ha ragione, l’unica cosa peggiore di essere beccati è avere addosso l’infamia del Giuda. Ma la febbre di cor­rere mi divora, è più forte di tutto. Non so fare nient’altro che andare in bici.
A novembre del 2009 ci presentiamo da Roberti. Vado r con le migliori intenzioni, voglio dire tutto: come ci si dopa, come si fanno le sacche, tempi modi effetti. (p.223)

27 p.227

La positività del 2009 è uno spartiacque.

Non posso correre per due anni e sono costretto a ridise­gnare la mia vita. Senza positività sarei stato il re del mondo, un uomo da un milione e duecento netti a stagione. Il mio secondo posto al Giro è stato come un primo, sulla strada tutti erano con me, perfino più del 2007. Nella tappa di Se­striere passavo davanti alle scuole e i bambini chiamavano il mio nome. Era qualcosa di sproporzionato, una vertigine.
Essere trovato positivo è stato come cadere dalle Torri Ge­melle. All’improvviso sei sbattuto in prima pagina col marchio di dopato, drogato, baro. In più ti trovi col culo per terra, gli ingaggi saltano, fine dei soldi, fine dei giochi.(p.227)

28 p.237

29 p.245

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Verso le undici rientro a casa, sistemo la valigia e conti­nuo la cura di EPO che ho cominciato venti giorni prima. Preparo siringa da insulina, alcol, cotone, laccio emostatico e prendo la fiala dal frigo. Aspiro 500 unità, una microdose. È EPO zeta, uno dei prodotti più recenti. Tutti se la fanno, è sicura perché ha un’emivita molto breve, due massimo tre ore. Se voglio fare bella figura devo tenere alto l’ematocrito con piccoli richiami di EPO anche durante il Giro. (p.250)

31 p.253

Per capire la fatica di una tappa impegnativa come que­sta, basta pensare che il reintegro del dispendio energetico sono undici chili e mezzo di pasta, una follia.
Quell’anno il Giro è un inferno, un tempo da cani, al Nord pioggia e freddo ovunque. Siamo tutti malati. Devo continuare a curarmi, ma non posso portarmi ad­dosso la sostanza, sono solo e non c’è nessuno di cui mi possa fidare. Allora escogito un sistema. Mi procuro una scatolina refrigerante della grandezza di un iPhone 6, solo un po’ più alta. Perché continui a raffreddare, la scatolina deve essere bagnata ogni 5-6 ore. Lì dentro tengo tutto quello che mi serve, fiale di EPO, GH, IGF-1. Non la porto con me in camera, la nascondo nel corridoio dell’hotel in cui alloggiamo, dietro un vaso, nel bocchettone dell’aria, dovunque trovi un buco. La mattina mi sveglio e la vado subito a bagnare, poi scendo a fare colazione. Prima di uscire mi faccio il GH, che mi dà forza, e la bagno di nuovo. Metto la scatolina nello zaino e me la porto sul pullman, prima di partire per la tappa le do una ripassata sotto l’acqua, poi la rimetto nello zaino che lascio sul pullman, mentre corro sono sicuro che nessuno ci mette le mani. È un rischio folle, se arrivano i NAS rovino me e chi mi sta intorno. A fine tappa torno sul pullman e ribagno la scatolina, vado in hotel, la bagno di nuovo e la nascondo in corridoio. Fac­cio i massaggi, la doccia, ceno e la sera in camera mi faccio una microdose. Poi la bagno, la nascondo e vado a dormire. La mattina dopo ricomincio tutto da capo. Alla fatica disumana della gara si aggiunge lo stress sfian­cante di stare dietro alla scatolina, è un incubo. Nonostante la situazione assurda in cui mi trovo entro in condizione. Sbattaglio, scatto, vado a tutta, anche se all’ultimo chilometro mi riprendono ci provo sempre. Non sono prepa­rato, ho due gare nelle gambe, la squadra non mi vuole, un al­tro forse non ci sarebbe nemmeno venuto qui in mezzo. Io ci porto la mia faccia, la mia grinta, corro da campione anche se nessuno mi tratta più come tale. Sferro un assalto furibondo e disperato alla strada. Corro come se fosse l’ultima volta. I risultati del controllo non compaiono nella mia pagina dell’ADAMS, di solito dopo un paio di settimane ti scrivono i valori e la negatività alla sostanza. Comincio ad agitarmi, chiamo Spezia al telefono: «È strano».
«Capita’ stai tranquillo e pensa a correre che stai andando forte. Guarda che a volte passano pure venti giorni.»
A una tappa viene a vedermi, sono inquieto: «Spe’ l’ho fatta la sera prima, porca troia».
«Quanta n’hai fatta?»
«500.»
«Dani’ è impossibile, non la possono trovare.»
«Ho capito, ma quando lo scrivono?»
«È la zeta, 500, è impossibile che la trovino.»
«Son passati più di quindici giorni, mi sto cagando sotto.»
«Stai tranquillo, fidati.»

Controllo l’ADAMS anche più volte al giorno, diventa un’os­sessione. Quando sei positivo non te lo scrivono, vengono a prenderti e basta, altrimenti ti scrivono “negativo”. (pp.253-255)

32 p.257

33 p.262

Dopo tre quattro giorni provo a uscire e a tornare alla f vita normale. Solo che una vita normale non l’ho mai avuta. Il mio lavoro era il mio corpo, doveva essere perfetto. Qual­siasi cosa potesse rendere il mio fisico perfetto, la facevo. La mia vita era studiata sulla bici: allenarsi, non uscire, dormire molto e bene, non andare al mare, non affaticarmi, non fare nessun altro sport, niente fritti Coca-Cola caffè, niente con­dimenti perché intossicano il fegato. Se c’era l’EPO facevo l’EPO e mi prendevo i rischi, come tutti. I corridori fuori attività dicono che ci vogliono almeno cin­que anni per tornare in un’ottica di vita normale. Devi impa­rare a rallentare, a non cercare dappertutto l’adrenalina della corsa, lo stare sempre a mille. Se non sei in grado di rinun­ciare a quella sensazione diventi un disperato, un tossico, fi­nisci per trovare il modo di ammazzarti. Le mie vicende vanno avanti, Ferrara svela il mistero dei calcoli sbagliati: l’antidoping ha perfezionato il metodo di ri­cerca dell’EPO zeta, ora riescono a trovarla anche in piccole dosi fino a 24 ore dall’assunzione. Quando succedono queste cose, nessuno passa voce ai col­leghi, ciascuno tiene per sé le proprie scoperte e si fa i cazzi suoi. Condivido la novità solo con i più fidati, quelli con cui corro da una vita.
Arrivano dall’uci le carte con i valori della positività. Mi chiama Ernesto: «Danilo se sono positive di poco chiediamo a Ferrara di rifarle, e dai che scongela e ricongela, magari rie­sce a contestare la positività».
Andiamo in università dallo scienziato, non so cosa spe­rare, sono così vuoto e frastornato che solo l’idea di riaprire le carte mi sfianca. Ferrara scuote la testa: «I valori sono troppo alti, solo la Provvidenza. Lascia stare». Guardo Ernesto: «Basta, non facciamo più niente». In un istante, mi sento libero. Cambio pagina. Non m’in­teressa più niente dell’ambiente, dei miei colleghi, di tutti gli anni spesi dentro la grande famiglia. Mollo tutto, ingrano un’altra marcia ed è più facile di quanto mi sia mai aspettato. Mi concentro sul negozio. Con Alessandro prendiamo de­cisioni drastiche, riassettiamo tutta l’attività. Il lavoro mi dà un rigore, un ritmo che non mi appartengono ma a cui devo stare se voglio risollevarmi. È difficile per uno che è sempre andato a 300 all’ora in ogni cosa.
Spingere sull’acceleratore, non conosco nessun altro modo per essere il migliore. È autunno e in mezzo ai casini comincio a godermi dei pic­coli piaceri: gioco a calcetto con gli amici, tiro tardi la sera, mangio patatine fritte almeno una volta al giorno, vado in moto. Entro nel mondo che ho sempre visto dal sellino della bici, il mondo delle persone normali.
Sono ancora in attesa della sentenza sportiva, quando in un giorno umido di novembre mi chiama Ernesto: «L’UCI ha mandato il tuo fascicolo al CONI. Ci vogliono vedere».
A Roma in procura antidoping vanno subito al punto: «L’UCI ha fatto la richiesta massima».
Ernesto e io ci guardiamo.
«Radiazione.»
La parola cade nella stanza come una granata.
Ernesto mantiene un contegno nel dire: «Non è mai suc­cesso, nemmeno con Ricco»1.
La loro proposta non si fa attendere: «Se vuoi collabo­rare siamo sempre disponibili. Ci dici com’è andata, chi te l’ha dato, tutto quanto. E noi ti riduciamo di parecchio la squalifica».
Vogliono i nomi dei medici, dei miei colleghi, di chi me l’ha venduta.
«Non parlo». (pp.265-267)

A parte gli abruzzesi, dei miei colleghi non mi chiama nes- ì suno, nemmeno per chiedermi come sto. Nell’ambiente si sparge la voce che vengo più volte convocato al CONI, hanno paura che possa scoperchiare il vaso.
L’Associazione corridori mi vuole fare causa per danno d’immagine. Anche Scinto e Citracca mi chiedono un risar­cimento. Molti ciclisti si sentono in dovere di far sapere a tutto il mondo quello che pensano di me. (p.268)

Il doping è ben lontano da essere l’azione sconsiderata e folle di un singolo che vuole migliorare la sua prestazione. I ciclisti sono solo dei pupazzi di carne, e sono pure ricatta­bili perché si dopano e perché accettano pagamenti irrego­lari. Siamo tutti collusi. E il fenomeno non è italiano o europeo, è mondiale, così come lo è lo sport di vertice. È un sistema organizzato, strut­turato, a livello logistico e operativo, che garantisce modi e possibilità di accesso al doping, protezioni per alcuni soggetti e non per altri, supporto legale e scientifico per far fronte a un’eventuale positività, e infine media compiacenti per far su­perare la crisi d’immagine post positività ed essere di nuovo accolti nella grande famiglia.
La lotta all’antidoping sarebbe così facile da fare, si obbli­gano le case farmaceutiche a mettere un tracciante nei pro­dotti. Basta, finito tutto.
Il 5 dicembre 2013 la procura antidoping mi convoca a Roma. Mi comunicano la radiazione, una punizione esem­plare. Ernesto è più arrabbiato di me. Non hanno mai ra­diato nessuno sportivo, sono il primo nella storia. È stato fa­cile spararmi addosso, sono il tubo di scappamento di tutto il sistema. Pago l’arroganza di non aver ascoltato niente e nessuno, di avere continuato a cercare la velocità, la linea dell’arrivo sotto la ruota, la sensazione di essere vivo e pul­sante mentre taglio il traguardo per primo e gli altri sono die­tro, una scia indistinta. (p.269)

34 p.271

FINE p.275

Questa storia non ha una fine, è la mia vita.
Il peso più grande che mi porto è il dolore causato alle persone che amo e che ho amato.
Per il resto, l’ho scampata. (p.275)

ELENCO PARZIALE DI CORRIDORI SOSPESI O SQUALIFICATI O RISULTATI POSITIVI DALLA FINE DEGLI ANNI NOVANTA A OGGI p.277

RINGRAZIAMENTI p.281