ALEJANDRO JODOROWSKY – PSICOMAGIA. UNA TERAPIA PANICA. CONVERSAZIONI CON GILLES FARCET

ALEJANDRO JODOROWSKY – PSICOMAGIA. UNA TERAPIA PANICA. CONVERSAZIONI CON GILLES FARCET
FELTRINELLI – Collana UNIVERSALE ECONOMICA FELTRINELLI n. 1412 – IX ed Febbraio 2004

TRADUZIONE: Silvia Meucci

In questo libro Jodorowky, intervistato da Gilles Farcet, parla della Psicomagia indicandone le origini, spiegandone l’esercizio e riportando numerose testimonianze…

RITRATTO DELL’ARTISTA COME PERSONAGGIO PANICO
Di Gilles Farcet p. 7

I – L’ATTO POETICO p. 19

Predicevi il futuro?
Assolutamente no![…]
Nel predire un dato avvenimento lo si provoca: è il fenomeno che la psicologia sociale chiama “realizzazione automatica delle predizioni”. (p. 21)
Cosa mi dici di quei veggenti che predicono soltanto avvenimenti felici, prosperità, fertilità e altre fortune?
In ogni caso si tratta di manipolazione. Inoltre sono convinto che sotto l’etichetta “veggente di professione” si nascondano sempre, salvo rare eccezioni, individui squilibrati, insensibili ed esaltati. Soltanto le predizioni di un santo sarebbero degne della nostra fiducia… Ecco spiegato perché rifiuto l’idea di dedicarmi all’attività di veggente.
Torniamo alle origini della psicomagia e alla tua attività di specialista nella lettura dei tarocchi. In che cosa consisteva?
tarocchi erano lo strumento che mi permetteva di individuare i bisogni di una persona e di localizzare la radice dei suoi problemi. Com’è noto, il mero fatto di portare alla luce una difficoltà incosciente, o ignota, è già un primo passo verso la soluzione. Lavorando con me, le persone acquistavano coscienza della propria identità, delle proprie difficoltà, di ciò che le spingeva a operare in una certa direzione. Le obbligavo a muoversi in lungo e in largo all’interno del proprio albero genealogico, al fine di dimostrare l’origine ancestrale di certi malesseri. Ciononostante, molto presto ho capito che non ci poteva essere autentica guarigione se non si passava all’azione concreta. Perché la consultazione avesse effetti terapeutici, doveva tradursi in atto creativo reale. Per questo a coloro che venivano da me ordinavo di compiere una o più azioni. L’individuo e io, di comune accordo e pienamente coscienti, dovevamo fissare un programma di azione molto concreto. Così ho iniziato a praticare la psicomagia. (pp.22-23)

La lezione è chiara: l’atto poetico deve essere sempre positivo, cercare la costruzione, non la distruzione…
Ciononostante, a volte è indispensabile distruggere per poter in seguito costruire…
Sì, ma attenzione alla distruzione fine a se stessa. L’atto è azione, non reazione vandalica. […] L’atto deve provocare un’impressione sempre positiva. (p. 30)
No; sono convinto che il senso di colpa sia inutile. L’errore è lecito se commesso una sola volta e in seno a un processo di sincera ricerca della conoscenza. È una condizione umana: l’uomo cerca la conoscenza, e l’errore costituisce parte del processo di ricerca. (p. 31)

II – L’ATTO TEATRALE p. 33

In generale, i comportamenti umani sono motivati da forze inconsce, qualunque siano le spiegazioni razionali che attribuiamo loro in seguito. Il mondo stesso non è omogeneo, ma un amalgama di influenze misteriose. (p. 36)

Il teatro mi interessava poco come distrazione e molto come strumento di conoscenza del sé. Per questo ho sostituito la “rappresentazione” classica con ciò che ho chiamato “l’effimero panico”. (p. 37)

III – L’ATTO ONIRICO p. 39

La fase successiva, che supera ogni tipo di interpretazione, consiste nell’entrare nel sogno lucido, in cui si è coscienti del fatto che si sta sognando, e questa consapevolezza ci dà la possibilità di lavorare sul contenuto del sogno.
È il metodo preconizzato da Carlos Castaneda…
Lui l’ha reso popolare, ma non ne è l’ideatore. (p. 41)

Ogni volta che tentavo di soddisfare le mie passioni, il copione mi assorbiva e perdevo lucidità. È stata una grande lezione: ho capito che, nella vita come nel sogno, per rimanere lucidi bisogna prendere distanza, agire senza identificarsi con l’azione.[…]
Il sogno, infatti, mi ha anche insegnato a reagire di fronte alle mie paure. […]
Allora ho capito che siamo noi ad alimentare le nostre paure. Ciò che ci intimorisce perde qualsiasi potere nel momento in cui smettiamo di combatterlo. (p. 49)
Il principio essenziale è, per quanto possibile, non lasciare mai un conto in sospeso con il nemico. Se si mantengono situazioni sgradevoli allo stadio embrionale, l’odio si nutre di se stesso e rischia di autoalimentarsi. (p. 53)

La “realtà” non esiste di per sé; istante dopo istante, sono i che creo la mia realtà, allegra o sinistra, monotona o appassionante. (p. 54)

Perché abbia effetto, però, ognuno deve coltivare dentro di sé una serie di qualità che possono apparentemente sembrare in contraddizione, come per esempio: innocenza, autocontrollo, fede, audacia… Attivare la magia richiede molto coraggio, anche una certa purezza e un profondo lavoro su se stessi. Vorrei insistere sul fatto che ho dedicato la vita a perfezionarmi, a conoscermi, a rendermi disponibile interiormente. È indispensabile non desistere mai nella pratica della disciplina, senza la quale questa concezione dell’esistenza non sarebbe altro che un’illusione. (p. 57)

Non illuderti: rimanere coscienti durante il sogno lucido richiede uno sforzo considerevole perché le emozioni provate in sogno sono reali. Se sei spaventato, lo sei per davvero, provi terrore, ed è difficile combatterlo. Alla fine, il grande insegnamento del sogno lucido non è tanto scoprire la magia quotidiana, quanto piuttosto l’importanza della lucidità. Non dimenticare che, senza lucidità, niente è possibile. (p. 58)

Hai indagato altri aspetti del sogno lucido?
In un secondo tempo ne ho esplorato le dimensioni più metafisiche: sono andato alla ricerca del mio maestro interiore. (p. 59)

Quindi la pratica del sogno lucido consiste nel costruire un’azione all’interno del contenuto onirico. Si può andare oltre il sogno lucido?
Sì; è possibile passare a ciò che io chiamo il “sogno terapeutico”, in cui la lucidità si utilizza per curare una ferita o colmare una carenza che si sperimenta nello stato di veglia. (p. 61)

Formidabile… Ma torniamo a quel sogno che si chiama realtà: è possibile, come affermano alcuni saggi, vedere la propria vita come un sogno dal quale ci si dovrebbe svegliare?
Direi piuttosto che quel sogno inconscio che è la nostra vita deve diventare un sogno lucido. Ci fu un tempo in cui, prima di addormentarmi, avevo l’abitudine di passare in rassegna tutti gli avvenimenti del giorno. […]
Passare in rassegna la mia giornata di sera equivaleva alla pratica di ricordare i miei sogni di mattina.
Il mero fatto di ricordare un sogno equivale a organizzarlo. Non vedo il sogno intero ma solo alcuni particolari che ho selezionato. Analogamente, nel ripercorrere le ultime ventiquattrore, non rivivo tutti i fatti del giorno ma solo quelli che ho trattenuto. Questa selezione costituisce già una sorta di interpretazione sulla quale, in seguito, fondo i miei giudizi e i miei apprezzamenti… Per essere più coscienti di questa situazione, possiamo cominciare con il distinguere la nostra percezione del giorno dalla sua realtà oggettiva. Quando saremo in grado di non confonderle più, saremo capaci di assistere come spettatori allo sviluppo della giornata, senza lasciarci influenzare da giudizi o valutazioni. In veste di testimoni, si può interpretare la vita come si interpreta un sogno. (p. 70)

Esatto. Posto che sogniamo la nostra vita, dobbiamo interpretarla e scoprire ciò che sta tentando di dirci, i messaggi che intende trasmetterci, fino a trasformarla in un sogno lucido. Una volta acquisita la lucidità, saremo liberi di intervenire sulla realtà sapendo che se ci limitiamo a occuparci dei nostri desideri egoistici, saremo travolti, perderemo l’imparzialità di giudizio, il controllo e, di conseguenza, la possibilità di compiere un atto vero. Per poterci divertire comportandoci in questo modo, dobbiamo farci coinvolgere sempre meno sia dal sogno notturno sia da quello diurno che chiamiamo vita.
Questo distanziamento che non impedisce né l’azione né la compassione, ina non ammette né desiderio né pietismo, assomiglia molto alla saggezza…
Certo! A cosa ti serve vivere con i tuoi sogni e fare uno sforzo per cercare di ottenere la lucidità, se non per trovare la saggezza? La realtà è un sogno nel quale dobbiamo lavorare per poter passare progressivamente dal sogno inconscio, sprovvisto di qualsiasi lucidità – che può sempre trasformarsi in incubo -, a quello che io chiamo “sogno saggio”.
E il Risveglio ? Le tradizioni spirituali parlano di coloro che si sono svegliati…
Svegliarsi è smettere di sognare. In altre parole, è sparire da questo universo onirico per trasformarsi nella persona che lo sogna. (p. 72)

IV – L’ATTO MAGICO p. 73

Come si fa a passare dall’atto onirico all’atto magico? Tanto per cominciare, cos’è l’atto magico per Jodorowsky?
Come ti ho raccontato, è stato in Messico che ho imparato a dominare parzialmente l’atto onirico. Se un tempo il Cile era un paese poetico, il Messico è sempre stato un paese onirico, dove l’inconscio non cessa mai di manifestarsi. (P. 75)

Magiabianca
No: psicomagia! Più avanti torneremo sui principi della psicomagia, ma ho voluto fare quest’esempio perché tu capisca che mi sono ispirato alle pratiche della magia nera radicate in Messico. Ho semplicemente invertito il processo: se si può fare del male a distanza perché non si può fare anche del bene?[…]
Io agisco al contrario: invio messaggi all’inconscio utilizzando il linguaggio simbolico che gli è proprio. Nella psicomagia spetta all’inconscio decifrare l’informazione trasmessa dal cosciente. (p. 78)
Quando in Messico ho scoperto il potere della magia nera, mi sono posto il problema della magia bianca. Se forze simili tra loro si possono muovere al servizio del male, non potrebbero essere utilizzate a fin di bene? Mi sono messo in cerca di uno stregone bianco. (p. 79)
Quando un malato si vuole autodistruggere e viene informato del cammino che percorrerà la sua malattia, fa di tutto per portarlo a compimento. (p. 94)

Cosa ti ha insegnato? Cosa hai appreso da quella esperienza che ti è servito in seguito nella pratica della psicomagia?
In primo luogo ho imparato a trattare con le persone. Grazie a lei, ho capito che tutti – o quasi tutti -, siamo bambini, a volte adolescenti. […]
Pachita sapeva che in ogni adulto, perfino in quello più sicuro di sé, dorme un bambino desideroso di amore, e che il contatto fisico è più efficace di qualsiasi parola per stabilire una relazione di fiducia e rendere il soggetto disponibile a ricevere. (p. 98)

Stando con lei, mi sono aperto al linguaggio degli oggetti, al significato che celano, per esempio, i regali: ogni presente ha un senso, si iscrive in una dinamica di possesso e comunicazione. Analogamente, il fatto di dimenticare qualcosa in casa di un amico o in un posto pubblico non è affatto casuale… (p. 102)
Non è spettatore di un mondo “oggettivo” inanimato, ma parte integrante di un universo soggettivo nel quale tutto è vivo. La stessa Pachita percepiva le malattie come esseri animati: il tumore è una creatura malefica che si merita di essere bruciata viva, ed ecco che udivi gemiti simili a pigolìi di uccelli. A volte estirpava dal corpo malato una forma in movimento che sembrava agitarsi nella penombra come un burattino. Dava corpo alla malattia che quindi perdeva la sua qualità di nemico invisibile – e, per questo, molto più pericoloso – per incarnarsi in una figura vagamente grottesca che poteva ricevere la morte. L’ho vista estrarre dal ventre di un omosessuale un fallo nero che ansimava come un rospo…
Una scena degna di un tuo spettacolo… Quelle che descrivi sono realmente scene “paniche”…
Era degna di Goya! Non so come facesse a condurci in quel mondo tanto barocco… Trance, allucinazioni collettive, geniali giochi di prestigio? Comunque sia, se imbroglio c’era, era un imbroglio sacro. Intendo dire che i suoi atti magici erano efficaci. Pachita portava effettivamente sollievo alla maggior parte della gente che chiedeva il suo aiuto. Per questo ho voluto osservarla e imparare da lei… (p. 103)

V – L’ATTO PSICOMAGICO p. 113

Ciononostante, per quanto mi riguarda, mi sono sforzato di scoprire alcuni meccanismi che intervenivano nel processo di guarigione per poterli riutilizzare in seguito. (p. 118)

Più facevo pratica, più mi convincevo che la causa di ogni problema risiede nell’albero genealogico.
Cosa intendi dire?
Accedere ai problemi di una persona significa entrare nella sua famiglia, penetrare l’atmosfera psicologica del suo ambiente. Tutti siamo marcati, per non dire contaminati, dall’universo psicomentale dei nostri antenati. Così molti individui fanno propria una personalità che non è la loro, ma che proviene da uno o più membri della loro cerchia affettiva. Nascere in una famiglia è, diciamo, essere posseduto.
Questo possesso si trasmette di generazione in generazione: la persona stregata si converte in stregone, proiettando sui suoi figli ciò che prima era stato proiettato su di lei… a meno che non si acquisti coscienza della situazione e si rompa il circolo vizioso. Dopo una seduta di due ore, molti esclamavano: “Non avevo scoperto tante cose neppure in due anni di psicoanalisi”. Quindi mi ritenevo soddisfatto, convinto che per risolvere un problema bastasse esserne coscienti. Ma non era vero. Per risolvere un problema non basta identificarlo. Non serve a niente essere consapevoli se non si passa all’azione. Me ne sono reso conto per gradi, arrivando infine alla conclusione che era necessario dare anche consigli di ordine pratico. Ma ero restio. (p. 119)

Allora mi venne un’illuminazione: perché la presa di coscienza di un problema divenisse efficace, dovevo far agire l’altro, indurlo a compiere un’azione precisa, senza per questo assumermene la tutela o diventarne la guida per tutta la vita. Così è nato l’atto psicomagico, nel quale si coniugano tutte le esperienze, assimilate nel corso degli anni, di cui abbiamo parlato finora.
Come procedevi?
Prima di tutto studiavo la persona, le chiedevo di raccontarmi tutto. Invece di tentare di divinare attraverso i tarocchi, la sottoponevo a un semplice interrogatorio. (p. 120)

La familiarizzazione con il terreno psicoaffettivo della persona mi pareva un requisito indispensabile per là prescrizione di qualsiasi atto psicomagico. (p. 121)

I problemi che abbiamo sono solo quelli che desideriamo avere. Siamo legati alle nostre difficoltà. Non bisogna stupirsi quindi se qualcuno tergiversa e si ingegna su come sabotare l’atto: in realtà non vuole davvero curarsi. Risolvere i nostri problemi implica modificare profondamente la relazione con noi stessi e con tutto il nostro passato. Date queste premesse, chi sarà veramente disposto a cambiare? La gente desidera smettere di soffrire, è vero, ma non è disposta a pagarne il prezzo, a cambiare, a cessare di definirsi in funzione delle sue adorate sofferenze. (pp. 124-125)

Concludendo, la psicomagia è un esercizio puramente spirituale…
Proprio così. Mi concentro sull’azione – sul mero fatto di dare, di alleviare il dolore attraverso la prescrizione di un atto – senza preoccuparmi dei frutti che potrei raccogliere a titolo personale. Per questa ragione, la psicomagia non utilizza parametri medici o paramedici. Si basa soprattutto sul distacco di chi la pratica. (p. 128)

La cosa importante è accettare se stessi. Se la condizione in cui mi trovo è causa di malessere, è segno che la rifiuto. Allora, più o meno coscientemente, tento di essere diverso da come sono, in definitiva non sono più io. Se, al contrario, accetto pienamente il mio stato, troverò la pace.(p. 130)

[…]l’accettazione di sé non limita le aspirazioni, al contrario, le nutre. Perché ogni miglioramento partirà sempre da ciò che si è realmente. (p. 131)

VI – ALCUNI ATTI PSICOMAGICI p. 131

In realtà, capita spesso di innamorarsi di un nome o di una professione che ci ricordano un genitore… (p. 136)

VII – BREVE EPISTOLARIO PSICOMAGICO p. 143

La malattia è sintomo di una carenza. Se l’inconscio sente che questa mancanza si è sanata, smette di lamentarsi attraverso i sintomi. (p. 168)

VIII – L’IMMAGINAZIONE AL POTERE p. 177

Vedi, un labirinto non è altro che un intrico di linee rette. Mi chiedo se, a volte, l’analisi e le terapie non abbiano la tendenza a complicarlo con ulteriori sinuosità… E poi un atto è più efficace di qualsiasi parola. (p. 179)

Alejandro Jodorowsky, professore di immaginazione.
Esattamente.[…]
L’immaginazione è presente in tutti i campi, compresi quelli che consideriamo “razionali”. È ovunque. Quindi bisogna svilupparla per affrontare la realtà, non partire da una prospettiva unica ma da molteplici angoli visuali. […]
Della realtà misteriosa, vasta e imprevedibile, percepiamo soltanto ciò che filtra attraverso la nostra minuscola lente. L’immaginazione attiva è la chiave di una visione ampia, permette di mettere a fuoco la vita da punti di vista che non sono i nostri, pensare e sentire partendo da prospettive diverse. Questa è la vera libertà: essere capaci di uscire da se stessi, attraversare i limiti del piccolo mondo individuale per aprirsi all’universo. Mi piacerebbe che i lettori del nostro libro ammettessero, perlomeno, l’idea del potere terapeutico dell’immaginazione, della quale la psicomagia, in fin dei conti, non è altro che una modesta applicazione. (pp. 180-181)